Contributi e materiali
Questa pagina ospiterà contributi storici di vario genere e provenienza sulle vicende che hanno interessato il castello di Padova nel corso dei secoli e materiali utili per l'approfondimento della sua conoscenza.
Gli interventi sul tema del restauro e del riuso del castello si possono trovare alla voce Il dibattito nel menu Conservazione e restauro
Il ruolo del Castelvecchio in un progetto Settecentesco per il suo restauro e riuso in "Quartier di Cavallaria"
da "Padova e la sua provincia" A. XXVII, febbraio 1981, (riprodotto con l'autorizzazione dell'autore)
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Le origini del castello di Padova
Il castello di Padova come oggi lo conosciamo o meglio, per quanto lo andiamo riscoprendo sotto le trasformazioni subite nel corso dei secoli, è sostanzialmente il castello carrarese trecentesco, e più precisamente quello di Francesco il Vecchio da Carrara.
Sappiamo pure che i Da Carrara non lo edificarono ex-novo, ma modificarono, ingrandirono e abbellirono una struttura preesistente, il castello di Ezzelino da Romano, costruito intorno al 1242. La cui consistenza, a parte la presenza di due torri, e a parte i pochi resti della porta occidentale individuati di recente, ci è sostanzialmente ignota.
Meno noto è il fatto che già prima della venuta di Ezzelino esisteva in quello stesso luogo una struttura fortificata, diciamo pure un castello, formato essenzialmente da un piccolo ma solido recinto, posto a protezione di una alta e solida torre, forse di poco precedente e ancora oggi esistente, pur se più volte ricostruita. Si tratta della Torlonga, successivamente inglobata nel castello di Ezzelino e in quello carrarese e infine trasformata in specola astronomica.
Il recinto è stato definitivamente riconosciuto nel corso dei recenti lavori di restauro sul lato occidentale della struttura, preceduti da attente, anche se ancora incomplete, indagini archeologiche [1]. (E' indicato in verde nella pianta qui a destra, elaborata dall'archeologo Stefano Tuzzato).
E’ costituito, per i lati occidentale e meridionale, da due brevi tratti di muro che si agganciano alla Torlonga e, pur avendo lo stesso spessore (tre metri) delle mura comunali, che costituiscono i lati ovest e sud del recinto del castello carrarese, non sono stati edificati in continuità con esse e ne differiscono anche per le tecniche costruttive: le mura comunali sono state edificate in una fase successiva e si appoggiano ai due brevi tratti di muro, che sono dunque preesistenti, formando con essi un leggero angolo che altrimenti non avrebbe giustificazione.
Gli altri due lati del recinto, sempre di tre metri di spessore, sono oggi intuibili, più che visibili, nel volume dello scalone realizzato da Domenico Cerato per accedere all’osservatorio, scalone ricavato dunque nello spessore del muro.
Non molto di più si può dire su questa struttura, neppure dove fosse collocato l’ingresso, che si può solo supporre fosse a nord o ad est, unici lati non lambiti da canali.
Risalendo ancora nel tempo, già alla metà del secolo precedente si parla, in diversi documenti, di un castro patavino, di inter ambi castelli, e poi de castro de domo, etiam de castro Padensi [2]. Due castelli dunque: se l’uno è evidentemente il castello vescovile, è possibile che l’altro fosse proprio dove ancora si trova oggi, e sicuramente dall'XI secolo, il castello. Se così fosse, e quale ne fosse eventualmente la consistenza, non è per il momento possibile sapere, e neppure immaginare, senza il supporto di indagini archeologiche ancora tutte da effettuare.
Oltre, nel nostro percorso all’indietro nel tempo, non possiamo andare. E’ ormai quasi certo però che l’area dove poi sarebbe sorto l’attuale castello, posta nel punto in cui il Bacchiglione si suddivide in due rami che vanno a circondare l’intera città formando la cosiddetta insula, costituisce un punto forte fin da tempi remoti. Lo confermerebbero i recenti saggi archeologici compiuti all’esterno del lato occidentale del recinto della Torlonga, che hanno permesso di ritrovare importanti tracce di un muro romano in grossi blocchi di pietra analogo ai tratti già scoperti da tempo in più punti del perimetro dell’insula fluviale e pure di un muro altomedievale di un metro e mezzo di spessore, entrambi disposti in direzione nord-sud (indicati rispettivamente in rosso e in arancione nella piantina in alto). [1] I risultati delle ricerche archeologiche sul castello di Padova sono riassunti in S. Tuzzato, Il Castello di Padova fino ai Carraresi e le nuove ricerche (1994-2004), in I Luoghi dei Carraresi, a cura di Davide Banzato e Francesca d’Arcais, Canova Edizioni, Treviso, novembre 2006, pp. 72-79. torna alla lettura [2] Il dettaglio dei documenti citati è nelle note da 2 a 5 del saggio Il castello carrarese di Adriano Verdi, presente in questo sito, alle quali rimando. torna alla lettura
E’ invece ormai certo che la torre, attorno alla quale è costruito il recinto, è effettivamente quella turlonga di cui si fa cenno per la prima volta in un documento del 1062, ricostruita più volte, ma sempre sulle rovine della precedente, e che della struttura originaria conserva ancora oggi qualche metro di alzato. Essendo il recinto, secondo gli archeologi, coevo o di poco successivo alla torre, il piccolo castello viene datato perlomeno all’XI secolo.
Consistenza e funzione di quest’ultimo muro, di cui è stato intercettato un tratto troppo breve per trarne conclusioni univoche (una precedente torre? un tratto di cinta difensiva di epoca bizantina?) potranno forse essere chiarite da ulteriori indagini archeologiche, ma soprattutto occorrerà capire se il muro romano piegasse qui verso est, come più tardi la cinta comunale, oppure proseguisse verso sud fino al canale dell’Olmo (o delle Acquette).
Nel primo caso si avrebbe la conferma che il corso d’acqua oggi noto come Naviglio interno (riviera Tiso da Camposampiero), comunemente ritenuto artificiale e di epoca imprecisata ma relativamente tarda, sarebbe invece assai più antico e forse di origine naturale; e la presenza del nodo fluviale confermerebbe l’importanza del luogo per la difesa della città già in antico. Nel secondo caso, se cioè le mura proseguissero verso sud, si dovrebbe invece supporre una concomitanza di tempi fra lo scavo del canale e la costruzione della turlonga, oppure trovare una eventuale diversa ragione per la scelta di questo luogo, anziché l’incile del canale dell’Olmo, per la costruzione della torre e successivamente del castello.
Ugo Fadini, 2010
Con il definitivo insediamento dei Da Carrara come signori di Padova il loro ruolo doveva essere segnalato anche simbolicamente da una residenza di livello adeguato. A questo provvede Ubertino, primo signore ufficiale, anche se terzo di fatto, che già a partire dal 1338 avvia la costruzione del palazzo di ponente, la propria residenza, con l'edificio con la doppia loggia a due soli lati, già completato nel 1343, di cui ci resta oggi il lato maggiore, e successivamente quello nuovo, o di levante, con il chiostro, pur esso caratterizzato dal doppio loggiato sui quattro lati, di cui resta soltanto la Sala dei Giganti, per di più in veste cinquecentesca. Gli edifici destinati più propriamente alle funzioni pubbliche si disponevano a est verso la piazza dei Signori (dove forse già esisteva il palazzo utilizzato nel decennio della loro dominazione dagli Scaligeri, cui si deve l'apertura della piazza stessa), e quelli per la guarnigione e i servizi, che seguivano verso nord, oltre la grande corte, oggi piazza Capitaniato.
Quale che fosse la consistenza di eventuali opere scaligere, è a Ubertino, con successive integrazioni da parte di Jacopo II e di Francesco il Vecchio, che si deve quanto ci è noto, e quel poco che ci è rimasto, della curia carrariensis.
Perché di quella vasta area che, con confini relativamente certi ad est (via Monte di Pietà, via Dante) e ovest (via Accademia, via Dondi) e un po' più incerti a sud (duomo) e soprattutto a nord (S. Nicolò?), di carrarese rimane oggi assai poco, inglobato in edifici posteriori e quasi invisibile (come i resti di una torre nella sala delle Edicole, all'interno degli edifici universitari di Piazza Capitaniato), o ignorato (come il portico che dà su corte Arco Valaresso), o infine completamente trasformato (come la Torre dell'Orologio, esito della trasformazione di una delle porte-torri di ingresso, o la Sala dei Giganti, che si presenta oggi nella veste cinquecentesca, ampliata e rialzata e con solo parte di un affresco trecentesco che ritrae Francesco Petrarca a testimoniarne l'identità con l'antica sala degli Uomini Illustri). Fa eccezione l'angolo sud ovest, che oltre ad una significativa porzione del palazzo vecchio, o di ponente, con la elegante loggia e gli affreschi della cappella di Guariento, conserva anche l'unico tratto della cinta difensiva, che probabilmente circondava l'intero complesso, nonché tracce cospicue degli accessi al traghetto, il percorso sopraelevato di collegamento con il castello, opera anch'esso di Ubertino.
Le trasformazioni funzionali e le modifiche apportate dai veneziani nel corso dei quasi quattro secoli seguiti alla conquista di Padova (1405), certo non tutte deplorevoli, vedi il caso della Torre dell'Orologio, ma ancor più i pesanti interventi ottocenteschi, culminati con la demolizione praticamente di tutto il palazzo di levante, con la sua corte con il doppio loggiato e le sale affrescate descritteci dai cronisti, hanno fatto quasi dimenticare alla città l'esistenza stessa del complesso carrarese, analogamente a quanto avvenuto, per fortuna in maniera meno definitiva, per il castello.
Per approfondire:
La reggia carrarese - Le vicende architettoniche del complesso trecentesco di Adriano Verdi (tratto da "I luoghi dei Carraresi", con nuove immagini e ampia bibliografia nelle note
I restauri di palazzo Anselmi, con le recenti novità sulla rampa di accesso al traghetto
Per ulteriori approfondimenti sulla reggia e sulla Padova carrarese in generale:
- I luoghi dei Carraresi, a cura di Davide Banzato e Francesca d'Arcais, Canova, Treviso 2006, che oltre al saggio di Adriano Verdi, qui ripreso e ampliato, ne contiene anche uno di Francesca D'Arcais su La decorazione della Reggia e uno di Davide Banzato su La cappella della Reggia
La torre dell'orologio di Piazza dei Signori è la parte centrale della quinta scenografica costituita dal fronte del Palazzo del Capitanio che faceva da sfondo alle cerimonie pubbliche e alle feste che sotto la Repubblica di Venezia, dal 1405 al 1797, si svolgevano nella piazza, come in un gran teatro. Questo che immette nell'attuale piazza Capitaniato era anche uno degli ingressi alla Reggia Carrarese, residenza e sede del governo dei signori della città, edificata per volere di Ubertino da Carrara (1338-1345).
Si ritiene comunemente che la nuova reggia realizzata a partire dal 1343 nel cuore della città da Ubertino da Carrara, signore di Padova dal 1338, fosse cinta da mura. Per la verità non è affatto chiaro se le mura, di cui rimane oggi soltanto l'angolo sud ovest, la cingessero davvero tutta, o se invece i palazzi che ne costituivano la parte meridionale offrissero all'esterno delle facciate munite, certo, ma di aspetto "cittadino". In ogni caso, se mura c'erano, sicuramente non si trattava di strutture possenti quanto quelle che cingevano la città o il castello, e potevano offrire una protezione limitata. Ubertino, o forse uno dei suoi successori, ritenne quindi opportuno realizzare un collegamento fra la reggia e il castello, che permettesse di raggiungerlo velocemente in tutta sicurezza in caso di pericolo. Il collegamento fu realizzato per mezzo di un lungo viadotto, il traghetto, che partiva dalla loggia del palazzo di ponente, si staccava dal muro di cinta all'altezza dell'arco che dà oggi accesso alla sede dell'Accademia Galileiana (aperto a fine Ottocento) e correva perpendicolarmente ad esso verso ovest, su ventotto archi, raggiungendo le mura comunali qualche decina di metri a nord del ponte Tadi, in corrispondenza di una torre della cinta.
Il percorso, della larghezza di circa tre metri, proseguiva poi sul camminamento di ronda delle mura fino al castello, dove è ancor oggi visibile la torretta, un tempo dotata di ponte levatoio, gettato su di un trabocchetto ricavato nello spessore del muro comunale, che permetteva la chiusura del passaggio una volta raggiunto il castello.
Sia alla reggia che al castello, il tratto terminale si sdoppiava, con un percorso "in quota" che si collegava direttamente con i locali al primo piano, ed un altro che scendeva lungo il muro di cinta con una lunga rampa, percorribile anche a cavallo, come di recente confermato in occasione delle ricerche propedeutiche ai rispettivi lavori di restauro.
Il singolare manufatto, simile per molti aspetti ad altri noti in Italia, primo fra tutti il corridore (o Passetto di Borgo) fra Vaticano e Castel Sant'Angelo a Roma, secondo la maggioranza degli studiosi fu costruito in contemporanea o subito dopo il completamento del palazzo di ponente, dunque intorno al 1343, o comunque prima del 1345, anno della morte di Ubertino, ma non manca chi lo attribuisce ad una fase più tarda. Già in abbandono dall'avvento della Serenissima, venne demolito nel 1777.
Ne rimangono oggi poche vestigia per quanto riguarda il viadotto vero e proprio, testimoniato da due lacerti murari in via Accademia e in via Frigimelica, segnalati da lapidi, nonché, per limitarci a quanto ufficialmente documentato, dalle fondazioni di due piloni, ritrovate durante il recente scavo archeologico che ha preceduto la costruzione del nuovo edificio in sostituzione della palestra Ardor, in via S. Pietro [1]. Il ritrovamento di queste fondazioni ha fra l'altro permesso di individuare con esattezza il punto di incontro con le mura e di confermare almeno approssimativamente, rilevandone il passo, il numero degli archi tramandato dai documenti. Giacomo Rusconi, a conclusione del suo saggio del 1929 [2], affermava che ne rimaneva un intero arco, impostato sul pilastro i cui resti ancora si vedono in via Frigimelica, ma inglobato all'interno dell'edificio. Riteniamo di poter confermare che quell'arco esiste ancora, o almeno se ne conservano evidenti tracce, sebbene nulla al riguardo sia stato fino ad oggi pubblicato. Non è peraltro escluso che altre vestigia del manufatto rimangano, inglobate in altri edifici, o a livello di fondazioni.
E' Andrea Memmo, il provveditore a cui si deve, in positivo, la sistemazione del Prato della Valle, a deliberare, in negativo, l'abbattimento del traghetto, avvenuto nel 1777, su pressante richiesta dei proprietari dei terreni sui quali correva, il conte Frigimelica in particolare, disposto pure ad accollarsi la spesa della demolizione "anco per i tre archi pubblici", come si dice in una perizia riportata dal Rusconi [3], quelli cioè che attraversavano le strade al Duomo (oggi via Accademia), d'Ambrolo (oggi Frigimelica) e del Colmellone (San Pietro), superata la quale il traghetto si agganciava alle mura comunali con una torretta (una "bella torricella", la definisce l'abate Giuseppe Gennari, piangendo la distruzione dell'opera trecentesca [4], anch'essa demolita a cura dei proprietari dei terreni interessati (e pure l'intero tratto di mura sarà poi demolito per ottenere un più agevole collegamento fra via S. Pietro e riviera Mussato). Lo smantellamento tornava peraltro assai utile al Memmo, proprio in vista della realizzazione del suo progetto per il Prà, in quanto gran parte dei materiali si sarebbero potuti utilizzare per bonificare l'area.
Nella perizia citata dal Rusconi si riportano anche il numero degli archi, ventotto (si riferisce al viadotto dalla reggia alle mura, senza contare i raccordi interni alla reggia), la larghezza del manufatto, otto piedi, pari a circa tre metri, e la sua lunghezza, 490 piedi padovani (186 metri). Rusconi aggiunge che l'altezza del viadotto era di nove metri presso le mura e di sette presso la reggia, ovvero le altezze dei camminamenti delle rispettive cinte. Del suo aspetto, a parte quanto è desumibile da quel che ne rimane all'interno del recinto della reggia, su cui torneremo fra poco, null'altro sappiamo di preciso: non ne esiste infatti alcuna raffigurazione, se non quelle, assai schematiche, nelle vedute della città [5], ma si deve supporre che i suoi parapetti fossero alti e merlati. Il segretario del Memmo, l'abate Vincenzo Radicchio, che relaziona sulla sofferta decisione di abbattere il traghetto [6], di merli non parla, ma date le condizioni abbastanza precarie della struttura non deve sorprendere che all'epoca potessero essere praticamente scomparsi. Ancora l'abate Gennari [7] riferisce di due "iscrizioni carraresi scolpite in pietra" incastonate nel parapetto degli archi (una su quello in via Duomo/Accademia, rivolta verso il duomo e una in via d'Ambrolo /Frigimelica), delle quali si è persa traccia e si ignora il contenuto.
Sulla scorta di quanto riportato dal Radicchio e nella perizia e dei pochi altri dati disponibili, Rusconi commissionò al pittore Primo Modin una ricostruzione ideale per illustrare la sua relazione per l'Accademia di Scienze Lettere ed Arti, relazione che rimane a tutt'oggi il lavoro più ampio e documentato sull'argomento [8].
Quello di cui Rusconi non si era reso conto, ma che è stato in seguito compreso, è che restava, e resta tuttora leggibile quasi per intero, anche se richiede un certo sforzo individuarlo, il tratto iniziale del traghetto, o meglio del raccordo di accesso ad esso, all'interno del recinto della reggia. Il collegamento pedonale, che partiva al primo piano del palazzo, all'angolo occidentale della loggia, è infatti visibile dal cortile dell'Accademia Galileiana: appartengono al viadotto di raccordo quei due arconi tamponati che si notano nel muro che si diparte verso destra dalla loggia. E se si sale al primo piano e si entra dalla piccola porta che si affaccia in fondo alla loggia, ci si ritrova in un corridoio, diviso in due piccoli locali, usato in passato dall'Accademia come lapidario e poi come magazzino, che altro non è che quel primo tratto del traghetto.
Se si torna ad osservare con attenzione il muro esterno che dà sulla corte dell'Accademia, sopra agli archi, che dobbiamo ovviamente immaginare aperti, si noteranno anche le tracce dei merli che scandivano il parapetto: si tratta di merli con funzione essenzialmente decorativa, visto che sono ben distanziati e vi si aprono delle finestrelle ad arco abbastanza ampie. E' invece probabile che se dei merli bordavano il viadotto fuori dalla reggia, come è probabile, questi fossero più convenzionali, con funzione eminentemente protettiva. Nel muro di cinta lungo via Accademia sussistono in effetti tre merli, che l'analisi stratigrafica pubblicata da Giorgio Baroni [9] attribuisce alla fase trecentesca, e si tratta si merli guelfi del tutto convenzionali. Tornando al viadotto di raccordo di cui si diceva, l'altro fianco è stato in seguito inglobato nell'edificio che chiude a nord la corte principale del palazzo ex Anselmi, ma gli archi sono stati riportati in luce nel recente restauro e i merli risultano perfettamente leggibili: uno di essi conserva ancora l'intonaco originale decorato a fresco. Un altro merlo, il primo a partire dalla loggia dell'Accademia, è invece ancora visibile dall'esterno, dal piccolo cortile est dell'ex proprietà Anselmi
Rimanendo all'interno della reggia, ma spostandoci nel cortile di palazzo Anselmi, addossati al muro di cinta lungo le vie Arco Valaresso e Accademia si vedono altri archi; i tre lungo il lato sud digradano verso il palazzo: sono quanto resta della rampa di cui si è detto, un percorso alternativo di accesso al viadotto, agibile anche a cavalli e piccoli carri. L’esistenza della rampa, già intuita [10] sulla base dell'osservazione diretta e dei rilievi di Giorgio Baroni degli anni ottanta [11], e a maggior ragione dopo la scoperta dell’analoga struttura al castello (vedi più avanti), è stata confermata nel corso dei recenti accurati lavori di restauro che hanno interessato l’area di Palazzo Anselmi per iniziativa del nuovo proprietario, la Fondazione Cassa di Risparmio. I lavori sono stati preceduti da indagini approfondite, che saranno documentate in un volume di prossima pubblicazione [10A]. Tutte le tracce trecentesche sono state scrupolosamente conservate e in particolare proprio la rampa, sulla quale sono emerse importanti novità di cui abbiamo ampiamente riferito in occasione delle giornate del FAI. Intanto, la foto aerea, anche se datata, e il disegno di Giorgio Baroni (che, anche nei suoi scritti, non rileva la rampa ma segnala gli archi digradanti) permettono di farsene un'idea abbastanza chiara. Va invece aggiornato il rilievo planimetrico di Baroni, che ipotizzava una prosecuzione degli arconi verso est, che egli supponeva demoliti, ipotesi smentita dalle risultanze degli studi che hanno preceduto il recente restauro, che hanno chiarito come a metà del suo percorso, ovvero dopo il terzo arco, la rampa piegasse ad angolo quasi retto verso nord per l'ultima parte della discesa, le cui tracce sono state ritrovate sotto il pavimento e nelle murature di un corpo di fabbrica di epoca posteriore.
Il percorso, superata la torretta d'angolo ancora conservata, seppure assai modificata, proseguiva poi, su altri sei archi, lungo il muro di cinta su via Accademia. All'altezza del quarto arco si congiungeva con quello proveniente dalla loggia, per proseguire con gli ultimi due e infine piegare verso ovest scavalcando via Accademia con il primo arco del traghetto propriamente detto. Cinque dei sei archi lungo via Accademia si conservano: i primi due visibili dal cortile di casa Anselmi, i due successivi inglobati nelle costruzioni più tarde, ma mantenuti visibili nel restauro, e il sesto, che dalla fine dell'Ottocento fa da arco di ingresso all'Accademia; il quinto fu invece abbattuto nel 1810 quando al suo posto fu inserita una scala progettata da Daniele Danieletti per permettere un accesso più comodo ai locali dell'Accademia, che allora occupava soltanto il piano superiore della loggia del palazzo di Ubertino [12].
Qualcosa di analogo a quanto descritto finora esisteva al castello, dove le ricerche che hanno preceduto i recenti lavori di restauro hanno confermato che la salida, presente nelle piante di fine settecento lungo il tratto di mura comunali che funge da lato occidentale della cinta del castello, era in effetti opera trecentesca, in tutto simile a quella della reggia, salvo che per l'andamento rettilineo: sono state infatti ritrovate le fondazioni dei piloni che reggevano gli archi digradanti. Non solo, ma si sono ritrovati anche segni evidenti di una copertura, una tettoia, che proteggeva la rampa [13]. Anche al castello un percorso pedonale alternativo, di cui rimangono tracce nei locali dell'osservatorio, permetteva di accedere direttamente ai locali al primo piano, percorrendo il camminamento del muro che cingeva la Torlonga.
Rimane da ricordare che il Radicchio, nella sua relazione, definisce il traghetto "una strada coperta": è probabile che intendesse "protetta", da un alto parapetto e da merli, e non coperta con un tetto. Ma almeno la rampa del castello coperta lo era sicuramente, nulla quindi si può escludere. L'unica certezza è che difficilmente lo sapremo mai.
Ugo Fadini (con la collaborazione di Andrea Ulandi), 2010
(N.B.: questa pagina verrà aggiornata non appena disponibile la pubblicazione sul restauro del palazzo ex Anselmi (il volume è uscito a fine 2010, vedi nota [10A]) e gli esiti di alcune ricerche su eventuali altri resti del traghetto all'interno di edifici, attualmente in corso)
[1] Qualche notizia e una pianta schematica in Lo scavo di una parte di un'insula perifluviale: l'area ex-Ardor a Padova, AAVV a cura di C. Balista, A. Ruta Serafini, in Quaderni di Archeologia del Veneto XVII 2001, ediz. Giunta Regionale del Veneto, Edizioni Quasar - Canova 2002. Vedi n particolare la relazione di Claudio Balista e Camilla Sainati. torna alla lettura
[2] G. Rusconi, Il "Traghetto" della Reggia carrarese, estratto da Atti e Memorie della Regia Accademia di Scienze Lettere ed Arti, anno 1929, Vol XLV. torna alla lettura
[3] G. Rusconi, Il "Traghetto", cit., Doc V, p. 24. Si tratta di una perizia di Domenico Roselli, Capitano d'ingegneri, datata 5 Dicembre 1776. Nello stesso documento sono riportate le dimensioni del traghetto. torna alla lettura
[4] G. Gennari, Notizie giornaliere di quanto avvenne specialmente in Padova dall'anno 1739 all'anno 1800, Biblioteca del Seminario, manoscritto 551, parte 1a, p. 188. torna alla lettura
[5] Fra le altre, nella veduta quattrocentesca attribuita allo Squarcione e in quella seicentesca del Dotto. Se davvero al traghetto si ispira quel viadotto che il Mantegna dipinge nell'affresco della morte di S. Cristoforo nella cappella Ovetari, come da più parti si sostiene, certo lo fa aggiornandolo al gusto del tempo. torna alla lettura
[6] D. V. Radicchio, Descrizione della concepita ed in gran parte effettuata dall'Ecc. Sig. Andrea Memmo, Cav. Procuratore di S. Marco etc, Roma, 1786, pag 38. torna alla lettura
[7] G. Gennari, Notizie giornaliere..., cit., p. 188. torna alla lettura
[8] G. Rusconi, Il "Traghetto", cit. torna alla lettura
[9] G. Baroni, Il Recupero e Restauro del corpo dell'Accademia lungo la cinta Carrarese, in "Padova e il suo Territorio", n.81, ottobre 1999, p. 32-35. torna alla lettura
[10] A. Verdi, La Reggia carrarese, in I luoghi dei Carraresi, a cura di D. Banzato e F. D'Arcais, Canova, Treviso 2006, p. 95: "Il tratto meridionale del muro di cinta è affiancato da speroni progressivamente decrescenti in altezza procedendo verso est per sostenere una discesa del percorso di ronda fino a terra con una rampa continua, in analogia con quella scoperta nel castello...". torna alla lettura
[10A] N. Nicolini, A. Rossi, La Reggia dei Carraresi a Padova, La Casa della Rampa, Fondazione Cariparo / Skira, Milano, 2010. torna alla lettura
[11] G. Baroni, I resti della cinta fortificata dell’”insula” carrarese, in "Padova e il suo territorio", n. 25, giugno 1990, p. 44-46. Vedi anche, dello stesso autore, Il recupero e il restauro del palazzo Anselmi ad integrazione della sede dell’Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti, in "Atti e Memorie dell’
Accademia Patavina di SS LL ed AA", anni 1987-1988, vol. C, parte III, p. 17-24, Padova, 1989, e Nuovi contributi alla conoscenza della “curia carrariensis”: risultati di un’analisi storico-filologica e delle ricerche e rilievi nel settore sud-ovest, in "Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di SS LL ed AA, anni 1983-1984, parte III, p. 159-162, Padova, 1984. torna alla lettura
[12] G. Baroni, Il Recupero e Restauro del corpo dell'Accademia lungo la cinta Carrarese, in "Padova e il suo Territorio", n.81, ottobre 1999, p. 32-35. torna alla lettura
[13] S. Tuzzato, Il Castello di Padova. Archeologia e storia, in Castelli del Veneto tra archeologia e fonti scritte, a cura di G.P. Brogiolo, E. Possenti, SAP, Mantova 2005, p. 78-80. torna alla lettura
Patrizia Dal Zotto
Stemma e insegne di Ezzelino: un persistente equivoco
Le insegne di Luigi il Grande |
Il probabile stemma di Ezzelino |
Il frutto dell'equivoco |
“Struzzo crestato che tien nel becco un ferro da cavallo; cimiero aperto colla corona, prerogativa delle grandi famiglie; croce sulla parte davanti del cimiero, indizio di famiglia che è intervenuta all’impresa delle crociate. La croce è azzurra, perché tale era il colore de’ crociati italiani. Lo scudo è bipartito: i gigli sono un contrassegno de’ Guelfi, e forse furono adottati da Ecelino il Balbo: i Ghibellini usavano il giglio aperto. Le fascie rappresentano i nastri, che le dame donavano a’ cavalieri, quando entravano ne’ tornei: i colori d’oro e verdi sono quelli de’ Ghibellini”. Così Pompeo Litta delinea lo stemma di Ezzelino da Romano nella sua pregevole opera sulle famiglie nobili italiane del 1820.[1]
La riproduzione e la dettagliata descrizione dello stemma sono tratti dai documenti e dagli studi pubblicati nel 1779 da Giambattista Verci, il quale nella sua Storia degli Ecelini riproduce con una incisione su rame un esemplare a bassorilievo sopravvissuto alla distruzione di tutti gli stemmi ordinata per decreto dopo la morte del tiranno, esemplare che all’epoca del Verci ancora si poteva ammirare nella loggia della corte maggiore del castello di Ezzelino a Padova, e che doveva essere molto simile al bassorilievo ora esposto nel Lapidario del Museo Civico della città. Lo storico bassanese trovava nelle cronache contemporanee a Ezzelino o di poco posteriori e in testimonianze letterarie dei secoli successivi una conferma della sua attribuzione.[2]
Pompeo Litta, forte del documentato lavoro di Verci, fornisce quindi, con lo stemma a colori, un tassello fondamentale dell’iconografia ezzeliniana, cara alla pittura storica dell’Ottocento romantico e risorgimentale. Un elemento in particolare è costantemente riproposto quale segno distintivo del tiranno, rappresentato con lo stereotipo dell’uomo barbuto e arcigno: il cimiero con la testa di struzzo tenente nel becco un ferro da cavallo. [3]
Al Litta si rifà anche lo stemma civico di due comuni che hanno voluto conservare nel nome il ricordo della famiglia: Romano d’Ezzelino (Vicenza) e San Zenone degli Ezzelini (Treviso). Entrambi hanno da sempre tra le loro insegne la testa di struzzo (o di cigno) tenente nel becco un ferro da cavallo.[4]
Lo stemma minuziosamente descritto e interpretato da Giambattista Verci e da Pompeo Litta non è però affatto lo stemma degli Ezzelini (o dei Da Romano, o dei Da Onara, secondo altre denominazioni della famiglia che si estinse nel 1260 con l’uccisione degli ultimi consanguinei del tiranno Ezzelino), e lo dimostra un altro prolifico studioso e appassionato di storia locale. Nel suo intervento pubblicato nel 1896 nel “Giornale Araldico-Genealogico”, Francesco Franceschetti analizza attentamente il bassorilievo (non ascrivibile all’epoca di Ezzelino, ma successivo di almeno un secolo, e per lo stile della cornice e per la foggia dello scudo), rilegge le fonti e le testimonianze letterarie chiamate in causa dal Verci, non attendibili dal punto di vista storico, e, dopo aver quindi escluso che si tratti dello stemma di Ezzelino, Franceschetti ipotizza che possa essere lo stemma del re Luigi d’Ungheria, amico e alleato di Francesco da Carrara. Brillante intuizione che lo studioso trova confermata in due riproduzioni, di cui diremo: l’armoriale di Gelre e l’arca di San Simeone.[5]
È ben noto che il re ungherese strinse alleanza con i Carraresi contro Venezia, ma oltre ai rapporti politici e diplomatici dovremmo considerare anche rapporti di amicizia personali tra Francesco il Vecchio e Luigi il Grande, come trapela dalle Cronache dei Gatari[6], che riportano due lettere del re indirizzate al Carrarese, e come potrebbero rivelare le numerose lettere del re conservate negli archivi ungheresi[7]. Nel castello avrebbe quindi avuto una sua collocazione lo stemma di un sovrano straniero, proprio nel segno della gratitudine e riconoscenza del signore carrarese nei confronti del re alleato che in alcune occasioni gli fornì anche aiuto materiale[8]. Al castello ezzeliniano mise mano in un primo tempo Ubertino da Carrara, ma fu Francesco il Vecchio che intervenne con consistenti restauri su tutto il complesso del castello, avvalendosi dell’architetto Nicolò della Bellanda, il quale, iniziati i lavori nel 1374, li terminò in soli 4 anni, mantenendo l’impegno preso.
La dissertazione di Franceschetti viene successivamente ripresa, confermata e rafforzata, da Nicolò De Claricini Dornpacher, il quale, delineando definitivamente il vero stemma di Ezzelino da Romano, attraverso un attento studio delle fonti e di manoscritti, null’altro aggiunge di nuovo al nostro stemma con cimiero[9]. I due brevi studi si integrano: il Franceschetti occupandosi di attribuire correttamente lo stemma delineato da Verci, De Claricini Dornpacher occupandosi innanzitutto di “dotare” la famiglia di Ezzelino di uno stemma, che doveva in conclusione essere un semplice scudo triangolare (forma ancora caratteristica nel XIII secolo) fasciato d’oro e di verde, senza cimiero[10].
Il saggio del conte De Claricini cerca anche di chiarire dove fossero in origine collocati gli stemmi del re ungherese di cui si abbia notizia, in totale quattro.
Un primo stemma si trovava sulla torre prospiciente la città, cioè sopra la porta orientale, verso piazza Castello, ed è il pezzo che, smontato durante i lavori di adattamento dell’ex castello in Casa di Forza nel 1807, è approdato al Museo Civico nel 1874 dopo passaggi in collezioni private[11].
Un secondo si trovava in mezzo alla loggia del cortile principale, ed è quello disegnato da Verci. Quale sorte gli sia toccata non lo sa neppure De Claricini: pare sia stato veduto solo dallo storico bassanese[12].
Un terzo stemma De Claricini lo vide e lo fotografò sulla porta secondaria prospiciente il fiume Bacchiglione custodita dalla torre maggiore, visibile ancora oggi[13]. Scalpellato dai veneziani e molto rovinato già agli inizi del ‘900, non mi sembra che possa essere ricondotto al cimiero con testa di struzzo, in quanto le due ali tendono a chiudersi verso la cima, anziché aprirsi. Tuttavia l’edicola e la cornice trilobata che racchiude lo stemma è del tutto simile al disegno di Verci.
Infine un quarto stemma sarebbe esistito nella collezione Piazza, e venduto nel 1904, ma De Claricini, che ha raccolto la notizia, non sa né da dove provenisse (forse era sulla torre maggiore, la Torlonga), né che aspetto avesse (semplice cornice rettangolare, come il bassorilievo in Museo, o con edicola, come quello pubblicato da Verci?) e neppure dove sia andato a finire.[14]
È quindi assodato che il bassorilievo in pietra di Nanto esposto nel Lapidario del Museo Civico di Padova proveniente dalla porta orientale del castello carrarese raffigura lo stemma con cimiero di Luigi (o Ludovico[15]) il Grande, re d’Ungheria, e che non è il pezzo delineato colla maggior possibile diligenza da Verci.
Durante gli ultimi lavori di restauro sono emersi ampi resti della decorazione pittorica del castello carrarese, tra cui spicca un’ulteriore testimonianza iconografica delle insegne di Luigi d’Ungheria: una stanza interamente decorata con lo stemma bipartito e il cimiero di struzzo alternati nella fascia centrale lungo le pareti.[16]
Il dipinto permette di rendere più leggibile il bassorilievo in pietra di Nanto, ormai piuttosto rovinato nella parte dello struzzo, conservato nel Lapidario del Museo Civico, e ci permette anche di fare alcune osservazioni: la testa di struzzo del Verci è crestata, anziché coronata, errore che viene reiterato in tutte le riproduzioni successive e nell’iconografia ezzeliniana. I colori: nella versione a colori di Litta lo stemma ha verde e oro nelle fasce. La scheda di catalogo del pezzo al museo riferisce di tracce di oro e verde rinvenute durante i restauri del 1979 (tracce ormai non più visibili), non specificando però in quale zona dello stemma. È da supporre che tali tracce fossero nel partito con i gigli dello scudo, e che il verde fosse risultato di ossidazione di un azzurro, cosa che coincide appunto con i gigli d’oro in campo azzurro, e non con il fasciato d’oro e di verde dello stemma di Ezzelino.[17]
Lo stemma dipinto in castello è uno scudo partito (scudo a targa, con la tacca per la lancia, caratteristico del XIV secolo): la parte sinistra fasciata di rosso e bianco, la parte destra seminata di gigli in campo azzurro. Si tratta dello stemma del ramo ungherese degli Angioini, che governarono il Regno d’Ungheria per quasi un secolo, succedendo alla prima casa regnante, quella degli Árpád[18]. La discendenza dagli Árpád è indicata dalle fasce rosse e bianche, mentre l’appartenenza alla casa d’Angiò dai gigli d’oro in campo azzurro.[19]
Il cimiero dell’elmo è costituito da una testa di struzzo coronata, uscente da due piume di struzzo, che nel becco tiene un ferro di cavallo. Il significato di questo simbolo araldico, che non resta quale elemento duraturo nell’araldica ungherese, avrebbe a che fare con il rafforzamento del potere reale e con il rovesciamento dei baroni, cioè la nobiltà e i grandi proprietari, che tenevano sotto il loro dominio gran parte del Regno d’Ungheria, rovesciamento avviato da Carlo Roberto e portato avanti con importanti risultati dal figlio Luigi. Infatti secondo una credenza medievale lo struzzo sconfigge il cavallo: il cavallo, che simboleggia i baroni, è già stato ingerito dall’enorme uccello coronato (non crestato), simbolo del sovrano, ed è rimasto solo il ferro di cavallo pendente dal becco[20]. Questo cimiero è l’insegna di Luigi il Grande: una immagine molto eloquente della sua politica interna, e nello stesso tempo un monito rivolto ai sudditi, presente sulle monete, sul suo sigillo segreto e su ogni altro oggetto che dovesse portare la firma del re.
Una delle raffigurazioni più belle dello stemma sormontato dal cimiero è quella presente nel cosiddetto stemmario di Gelre, conservato nella Biblioteca Reale di Bruxelles: il manoscritto, realizzato tra il 1370 e il 1395 riproduce 1755 stemmi di tutta Europa, con particolare riguardo all’area fiamminga e renana. È la prima conferma che Franceschetti ebbe alla propria intuizione. Lo stemma ungherese rappresenta l’archiregno d’Ungheria al tempo di Luigi il Grande, e comprende le insegne di Polonia (l’aquila) e Dalmazia (le tre teste di leopardo coronate); la croce apostolica (a doppio braccio orizzontale) era già utilizzata da alcuni Árpád (fa riferimento all’incoronazione di Stefano, primo re ungherese e cristiano).
Il cimiero con la testa di struzzo, ma anche lo struzzo intero, indipendente dall’elmo, sempre recante un ferro di cavallo nel becco, compare già in alcune monete di Carlo Roberto[21], ma si configura ben presto come la “firma” del re Luigi il Grande, che ritroviamo sul suo sigillo segreto[22], sulle monete e su svariati oggetti, tra i quali oggetti liturgici o per il culto. L’esemplare più bello è il frammento di un grande fermaglio di piviale in argento, in parte dorato e cesellato, e smalti, recante lo stemma ungherese sormontato dal cimiero con lo struzzo, parte della donazione per la cappella ungherese di Acquisgrana[23], fatta costruire dallo stesso re nel 1367. L’arca di San Simeone è la più importante e sfarzosa opera dell’oreficeria medievale zaratina, commissionata dalla regina Elisabetta, moglie di Luigi il Grande, per contenere le reliquie del santo, e realizzata nel 1380 da Francesco da Milano[24]. I bassorilievi sulle lamine d’argento che rivestono la cassa di legno rappresentano scene della vita del santo e l’entrata di re Luigi d’Ungheria a Zara nel 1358, il cui stemma con cimiero e testa di struzzo è raffigurato in più punti.
Un bassorilievo in marmo rosso raffigurante l’elmo con cimiero, venuto alla luce durante le prime campagne di scavo effettuate nel XIX secolo nell’ambito dei resti della basilica reale di Székesfehérvár (Ungheria), era parte della decorazione araldica della cappella sepolcrale angioina fatta costruire da re Luigi il Grande, dedicata a santa Caterina[25]. Nella cappella vi trovarono posto i sepolcri di Carlo Roberto, di Luigi il Grande, della moglie, la regina Elisabetta e della figlia Caterina, morta nel 1374.
Analoghe le rappresentazioni su piastrelle di stufa di ceramica verde, provenienti dall’ala meridionale del castello di Buda, fatta costruire da Luigi il Grande a partire dal 1370, nell’ambito di lavori di ampliamento della sede reale. Sono conservate nel Museo Storico insieme ai numerosi frammenti della decorazione gotica del castello, venuti alla luce nel Novecento.
Lo stemma che Verci e Litta attribuiscono agli Ezzelini fa ormai parte dell’iconografia ezzeliniana, e come tale di fondamentale importanza per la lettura del “mito” ezzeliniano e delle sue rappresentazioni in particolare nell’Ottocento. Ma tale attribuzione non è più accettabile.
Come si può intuire dalle brevi note esposte, rintracciare le raffigurazioni dell’insegna personale di Luigi il Grande permette anche di ricostruire, attraverso i pochi frammenti sopravvissuti, le realizzazioni artistiche e il vivace clima culturale della corte angioina sotto il suo governo: una corte paragonabile, ad esempio, a quella dei Carraresi. Francesco il Vecchio e Luigi il Grande: due personaggi di alta levatura politica e culturale che hanno caratterizzato, con la loro figura e le loro opere, due territori, Padova e il Regno d’Ungheria, alla fine del Medioevo e alle soglie del Rinascimento.
Per concludere alcune note sulla rappresentazione dello struzzo tenente un ferro di cavallo nel becco e sulla sua simbologia.
Alcuni studiosi che si sono occupati della raffigurazione delle insegne del re ungherese non parlano di struzzo, bensì di otarda. L’otarda è un uccello che corre veloce, simile allo struzzo, ma con il collo molto più corto, diffuso in Europa: in effetti alcune rappresentazioni dello struzzo, in particolare quelle a figura intera (ma anche la sola testa del cimiero, come quella della cappella di San Giacomo al Santo[26]) presentano un collo tozzo, così poco caratteristico dello struzzo. Mi pare comunque che non sia fondamentale la differenza struzzo/otarda, e che in fin dei conti sia lo stesso animale, almeno per la simbologia e l’iconografia medievali.
Lo struzzo nel Medioevo era considerato un animale particolare per i suoi strani comportamenti che diedero origine a credenze, leggende e simbologie cristiane. Non vola ma corre velocissimo, cosa che doveva apparire impossibile per una creatura del cielo; non cova le uova, ma le depone sul terreno e le fa covare dal calore del sole; cova le uova fissandole con lo sguardo; ha le piume tutte della stessa lunghezza. Lo struzzo è quindi simbolo della resurrezione per i cristiani (un uovo di struzzo appeso in chiesa serviva da monito per il cristiano che dimenticava Dio, o aveva funzione meditativa); simbolo di giustizia (già presso gli antichi egizi). Simboleggia la capacità di dominare le difficoltà più dure, perché è in grado di ingoiare e digerire anche pezzi di ferro e pietre, e questa è la sua caratteristica più appariscente. Viene infatti rappresentato con un chiodo, una chiave o, soprattutto, un ferro di cavallo nel becco, e questo oggetto è a tal punto caratteristico delle rappresentazioni dello struzzo che è sufficiente per identificare come tale qualsiasi uccello che lo porti nel becco[27]. Con questa caratteristica e questa iconografia viene spesso scelto come insegna per le farmacie. Anche a Padova operava una farmacia all’insegna dello struzzo d’oro, il cui sigillo era conservato nelle raccolte del Museo Bottacin nei primi anni del Novecento: una figura di struzzo intera con un ferro di cavallo nel becco, recante l’iscrizione SPEZIARIA ALLO STRUZZO IN PADOVA. La farmacia rimase vittima della distruzione del quartiere di S. Lucia, il sigillo d’altra parte non ebbe sorte migliore, tra guerre e traslochi, dato che non ne resta più traccia se non la descrizione nei registri e nei cataloghi delle collezioni civiche[28]. Lo struzzo con un ferro di cavallo nel becco venne scelto anche dallo stampatore veneziano Marcantonio Zaltieri come marca tipografica, con il motto NIL DURUM INDIGESTUM (1575-1600 ca.).
Nell’araldica italiana lo struzzo rappresenta l’obbedienza del suddito e la giustizia[29], ma non ho trovato alcun riferimento particolare al ferro di cavallo pendente dal becco, che sembrerebbe essere puramente funzionale a distinguere lo struzzo da altri uccelli.
[1] P. Litta, Famiglie celebri d’Italia, Milano, 1820, vol. II. L’opera in 16 volumi, pubblicata dal 1819 al 1885, continuata da altri studiosi dopo la morte del conte Litta (1852), per ciascuna famiglia contiene la genealogia, lo stemma, ritratti dei principali membri, e la riproduzione di diversi oggetti d’arte relativi, come monete, medaglie, monumenti funebri, bassorilevi, alcuni ormai scomparsi. torna alla lettura
[2] G.B. Verci, Storia degli Ecelini, Bassano del Grappa, 1789, tomo I, pp. 189-191. torna alla lettura
[3] Si veda: F. Scarmoncin, Iconografia di Ezzelino III da Romano, in R. Del Sal e M. Guderzo, Mille anni di storia. Bassano 998-1998 (cat. mostra bassano del Grappa, 22 luglio-8 novembre 1998), Cittadella, 1999, pp. 26-29. Un brevissimo intervento che tratteggia le linee essenziali della rappresentazione del principale esponente della famiglia degli Ezzelini. torna alla lettura
[4] Il comune di Romano ha aggiunto la specificazione d’Ezzelino nel 1867, subito dopo l’annessione del Veneto all’Italia, per distinguersi da altri comuni omonimi. Si veda: G. Farronato, Uno stemma per Romano d’Ezzelino, Romano d’Ezzelino, 1993. Interessante opuscolo che ripercorre l’origine e l’uso delle insegne del comune, traenti ispirazione dallo stemma di Litta. torna alla lettura
[5] F. Franceschetti, Sul creduto stemma gentilizio degli Ezzelini, in “Giornale araldico-genealogico diplomatico”, XXIV (1896), pp. 1-8 (pubblicato anche in estratto, 23 pagine totali, di formato molto più piccolo rispetto al Giornale). torna alla lettura
[6] G e B. Gatari., Cronaca carrarese, in Rerum Italicarum scriptores, vol XVII, Città di Castello, 1932. torna alla lettura
[7] Ne è stata pubblicata una raccolta, tradotta in ungherese dall’originale latino: Árpád-kori és Anjou-kori levelek XI-XIV százád [Lettere delle epoche arpadiana e angioina, XI-XIV secolo], a cura di L. Makkai e L. Mezéy, Budapest, 1960. Non sono solo lettere ufficiali. torna alla lettura
[8] Celebre l’episodio, riportato dai Gatari, delle tre carrette cariche di piastre d’oro e d’argento che Francesco da Carrara fece coniare in monete. torna alla lettura
[9] N. De Claricini Dornpacher, Lo stemma dei Da Onara o Da Romano. Studio storico-critico, Padova, 1906. torna alla lettura
[10] In C. Bertelli e G. Marcadella, Ezzelini. Signori della Marca nel cuore dell’Impero di Federico II, Bassano del Grappa, 2001 (catalogo della mostra), p. 13 e (stesso titolo), Milano, Skira, 2001, p. 39-41, Laura Pontin, riesaminando gli studi e le fonti di Franceschetti e di De Claricini Dornpacher, chiarisce in modo dettagliato l’aspetto dello stemma di Ezzelino, pubblicando anche la prima descrizione nota di tale stemma: un disegno (con il nome dei colori) tra le postille aggiunte nei margini di un manoscritto della Biblioteca Civica di Padova, disegno individuato da De Claricini. torna alla lettura
[11] G. Lorenzoni, Il castello di Padova e le sue condizioni alla fine del secolo decimottavo, Padova, 1983 (rist. anast. dell’edizione 1896). torna alla lettura
[12] Non è chiaro neppure dove fosse collocato esattamente. Dalle parole del Verci sembrerebbe fosse sul lato nord della corte: forse in corrispondenza della stanza affrescata con lo stesso stemma? “Essa [l’arma] è posta nella loggia superiore e alla destra di chi entra nel Castello, che fu fatto fabbricare dal medesimo Ecelino. È scolpita in pietra tenera di Nanto, ed incastrata nella muraglia verso la metà della detta loggia all’altezza di sei piedi in circa sopra il pavimento” (G.B. Verci, op. cit., p. 189). torna alla lettura
[13] Riportato anche da Dercsény: D. Dercsény, Nagy Lajos kora [L’epoca di Luigi il Grande], Budapest, 1990 (ristampa dell’edizione del 1941). torna alla lettura
[14] N. De Claricini Dornpacher, op. cit., pp. 31-33. torna alla lettura
[15] Il nome latino Ludovicus ha diversi esiti nelle diverse lingue: in italiano Ludovico o Luigi, in veneziano Alvise, in ungherese Lajos, Luois in francese, Ludwig in tedesco, Lewis in inglese. torna alla lettura
[16] Si veda: A. Spiazzi, Pitture murali nel castello carrarese, in “Padova e il suo territorio”, n. 138, 2009, pp. 18-20; P. Dal Zotto, Luigi il Grande, re d’Ungheria, nel castello carrarese, in ibid., pp. 21-24. torna alla lettura
[17] Cento opere restaurate del Museo Civico di Padova, Padova, 1981 (cat. mostra Nuovo Museo Civico agli Eremitani, 1981), p. 217; D. Banzato e F. Pellegrini, Il Lapidario del Museo d’Arte Medievale e Moderna, Venezia, 2000. torna alla lettura
[18] (Santo) Stefano Árpád viene incoronato nel 1000; l’ultimo della dinastia, Andrea III, muore nel 1301. Segue quasi un decennio di disordini, e poi gli angioini: Carlo Roberto d’Angiò (1310-1342), figlio di Carlo II re di Napoli e di Maria Árpád, suo figlio Luigi il Grande (1342-1382), sua figlia Maria (1382-1395). torna alla lettura
[19] I. Bertényi, Kis magyar címertan [Piccola grammatica araldica ungherese], Budapest, 1983. Un confronto tra diverse raffigurazioni dello stemma regale sulle monete permette di evidenziare che il re Carlo Roberto all’inizio del suo regno portava la partitura invertita, ossia i gigli a sinistra. Il cambiamento avviene nel 1336-37, e indica un mutato approccio del sovrano nei confronti del proprio ruolo: re d’Ungheria angioino. torna alla lettura
[20] Secondo quanto afferma Szabolcs Vajay, eminente studioso di araldica ungherese e francese, citato in I. Bertényi, Kis magyar címertan, op. cit., p. 71. torna alla lettura
[21] Fu il re Carlo Roberto d’Angiò a introdurre in Ungheria il fiorino d’oro, su modello della moneta di Firenze. torna alla lettura
[22] Si vedano: Nagy Lajos király kora, 1342-1382 [L’epoca del re Luigi il Grande, 1342-1382], Székesfehérvár, 1982 (cat. mostra István király Múzeum, Székesfehérvár; 1982/83); D. Dercsény, Nagy Lajos kora, op. cit. Sono le due opere più importanti e complete, tuttora valide per ricostruire i quattro decenni che videro la massima estensione territoriale dell’Ungheria. torna alla lettura
[23] Si veda per maggiori dettagli e per gli altri oggetti del tesoro: L'Europe des Anjou: aventure des princes angevins du 13. au 15. siecle, Paris, 2001 (cat. mostra Abbazia di Fontevraud, 2001). torna alla lettura
[24] N. Jakšić, Committenze artistiche sulle coste adriatiche nel Medioevo, in “Patrimonio di Oreficeria Adriatica”, anno 1, n. 1, 2007 (rivista semestrale on-line: ). Si veda anche: I. Petricioli, Skrinja Sv. Simuna u Zadaru [L’arca di San Simeone a Zara], “Monumenta Artis Croatiae” I. 3., Zagreb, 1983. torna alla lettura
[25] La basilica reale di Székesfehérvár fu distrutta dai turchi nel XVI sec., e solo a partire dalla prima metà del XIX secolo vennero eseguiti degli scavi, in più riprese, spesso senza continuità, a volte senza la possibilità di indagare in modo completo il terreno. La ricostruzione di cappella e decorazione, che si basa anche su descrizioni e cronache medievali, non è ancora completa e univoca. L’ultima campagna di scavo del 2004 ha portato alla luce altri resti, in parte riferibili alla cappella funeraria degli angioini. I risultati non sono ancora stati pubblicati. Si veda: Nagy Lajos király kora..., op. cit. torna alla lettura
[26] Negli affreschi della cappella di San Giacomo al Santo, è stato da tempo individuato un ritratto del re ungherese nelle tre scene della storia di Carlo Magno, legata alla figura di san Giacomo: Il sogno di Carlo Magno, Il Consiglio della Corona, La presa di Pamplona. In quest’ultima scena uno scudiero, in piedi accanto al re, regge l’elmo con cimiero di testa di struzzo. Questa interpretazione del soggetto degli affreschi, ormai accettata, si differenzia dalla precedente, di lunga tradizione, che vedeva nella figura del re, rappresentato appunto nelle vesti del re Luigi d’Ungheria, il re Ramiro e la battaglia di Clavigo. Si veda in proposito: G.. Valenzano, Fonti iconografiche del ciclo giacobeo, in Cultura, arte e committenza nella Basilica di S. Antonio a Padova nel Trecento, a cura di L. Baggio e M. Benetazzo, Padova, 2003 (atti del Convegno Internazionale di Studi, Padova, 2001), pp. 335-347. Per il ritratto del re Luigi d’Ungheria si veda: DERCSÉNY D., Ricordi di Luigi il Grande a Padova, in “Corvina” n.s., Budapest, 1940, pp. 468-480. torna alla lettura
[27] E. De Boos, Dictionnaire du blason, Paris, 2001, p. 32; F. Maspero e A. Granata, Bestiario medievale, Casale Monferrato, 1999, pp. 420-428. torna alla lettura
[28] L. Rizzoli, I sigilli del Museo Bottacin di Padova, Bologna 1974 (ristampa anastatica dei volumi pubblicati nel 1903-08). torna alla lettura
[29] P. Guelfi Camajani, Dizionario araldico, Milano, 1940; F. Di Montauto, Manuale di araldica, Firenze, 2001. torna alla lettura
Adriano Verdi
La Reggia carrarese [1]
Le vicende architettoniche del complesso trecentesco
Descrizione dell’esistente
L’area occupata dagli edifici eretti a Padova dai signori da Carrara per loro residenza e per lo svolgimento delle funzioni di corte durante il 14° secolo è probabilmente quella ancor oggi delimitata a sud da via Arco Valaresso e piazza Duomo, a est da via Monte di Pietà, piazza dei Signori e via Dante, a nord da via San Nicolò e a ovest dalle vie Dondi dall’Orologio e Accademia. Si tratta di un’area di ben 28.767 mq con un perimetro di 725 metri.
Rispetto alle delimitazioni fornite da Andrea Gloria [2] e condivise dagli studiosi successivi [3] che hanno sempre lasciato fuori la chiesa di S. Nicolò, perché parrocchia già nel 1178, io preferisco comprendere nel perimetro anche l’edificio fatto costruire da Montorso, figlio di Guglielmo Montorsi, familiare di Francesco il Vecchio, ricordato da una lapide collocata nella parete su via Dante. Durante i lavori di conservazione e restauro di quell’edificio, oltre agli affreschi con i cimieri carraresi, sono apparsi all’interno resti di merlature, tamponate sulla sommità della muratura d’ambito intermedia, quella che separa la porzione più alta dell’edificio da quella più bassa lungo via San Nicolò.
Questo ritrovamento sposterebbe quindi i limiti della reggia più a nord, regolarizzandone il margine, pur lasciando eventualmente fuori la chiesa. Ma si tratta pur sempre di un’ipotesi perché il ritrovamento potrebbe anche significare, più semplicemente, che Montorso si è costruito una casa merlata in adiacenza alla curia carrarese, come del resto sembrerebbe testimoniare l’indipendenza della struttura a barbacani della parte dell’edificio addossata a nord alla parte più antica [4].
Il muro di cinta fortificato dell’insula carrarese si conserva visibile con gran parte delle caratteristiche originarie solo all’angolo sud occidentale, tra via Arco Valaresso e via Accademia [5].
La cortina muraria che appare all’esterno, formata da blocchi di trachite alternati a due o tre corsi di mattoni, ha uno spessore di 77 centimetri (circa due piedi padovani) ma è munita di contrafforti interni collegati da volte, che allargano lo spessore complessivo a circa tre metri, capace di sostenere un percorso di ronda merlato all’esterno e munito di parapetto all’interno. La quota del pavimento di trachite del passaggio è collocato a circa sei metri d’altezza da terra, cioè alla quota del primo piano della loggia. Da questa, infatti, si distaccano due arconi di sostegno del primo tratto del traghetto, ancora interno al palazzo, in evidenza nella muratura ad ovest del porticato.
Il tratto meridionale del muro di cinta è affiancato da speroni progressivamente decrescenti in altezza andando verso est, per sostenere una discesa del percorso di ronda fino a terra con una rampa continua, percorribile anche dai cavalli, segnalata da Giorgio Baroni [5], in analogia con quella scoperta nel Castello, all’interno della cortina di epoca comunale, a ovest della casa del Monizioniere [6].
In seguito ai restauri della sede dell’Accademia compiuti dal 1966 al 1969 su progetto e direzione di Alessandro Tambara [7] e a quelli dell’integrazione meridionale progettati e diretti da Giorgio Baroni dal 1986 al 1987 [8], i resti del palazzo occidentale di Ubertino si presentano oggi accessibili attraverso un passaggio coperto a volta, malamente aperto a fine Ottocento in via Accademia proprio in corrispondenza del punto ove il traghetto si distaccava dal muro di cinta della reggia.
I due portici sovrapposti della loggia, formati da nove colonne per piano, danno l’impressione di grande apertura e leggerezza. Le colonne sono molto slanciate, in particolare quelle del piano terra, più alte di quelle del piano superiore, che però sono collocate sopra il parapetto. Inoltre, osservando con attenzione si nota che le colonne non hanno tutte lo stesso diametro: alle cinque di diametro maggiore, a partire dalle estremità, si alternano quattro più sottili, con un gioco raffinato che si riscontra anche nel loggiato del palazzo della Ragione, realizzato una trentina d’anni prima da fra’ Giovanni degli Eremitani.
All’interno della loggia l’edificio ospita l’Accademia Galileiana, fondata come Accademia dei Ricovrati nel 1599. L’attuale ingresso a ovest, sottoposto alla cappella di palazzo, era nato come portico aperto verso occidente, decorato nella parte alta della parete interna, sopra gli archi ribassati, con un fregio a fresco ove si alternano lunette e occhi con rosoni, ombreggiati in modo da dare l’illusione di un partito architettonico [9].
A sinistra si entra nella sala di lettura della biblioteca, un tempo anticamera dei Cimieri, alta quasi sei metri, con decorazione a fresco sulla parete sopra all’ingresso e su quella di fronte, sopra la porta che conduce nella camera dei Carri. I cimieri si alternano ai carri rossi entro dei tondi, a loro volta racchiusi da una decorazione geometrica intrecciata. La cornice sotto il soffitto è dipinta a chiaroscuro, col motivo degli archi trilobati retti da mensole dal volto umano, a forte effetto prospettico.
Nella più piccola camera dei Carri la cornice è formata, invece, da mensole che danno l’illusione di aggettare dalla parete. Al di sotto la decorazione imita una stoffa più morbida, rispetto all’anticamera dei Cimieri, nella quale sono sempre alternati cimieri e carri, questi entro scudi bianchi, anziché entro i tondi.
Procedendo verso est si giunge al vano della scala che conduce ai piani superiori. Questo locale è quanto resta al piano terreno della stanza di Lucrezia e al primo della stanza degli Ufficiali, tagliate a metà nel 1878 con l’edificazione delle scuole “Carraresi” di Camillo Boito.
Al piano superiore, dopo un locale posto sopra alla camera dei Carri, si passa in un secondo di analoghe dimensioni e finalmente nella sala delle adunanze dell’Accademia, nata dall’improvvida demolizione nel 1779 della parete est della Cappella dei Carraresi, con la parete occidentale affrescata da Guariento di fronte all’ingresso. Nelle scene dipinte sono raccontate storie dell’Antico Testamento.
Il soffitto era decorato con una serie di tavole rappresentanti gerarchie di angeli attorno ad una Madonna col Bambino, ora in parte conservate e ricomposte al Museo Civico.
Sulla parete orientale della sala sono esposti altri due affreschi, staccati dalla parete demolita della cappella palatina, con le scene di Adamo ed Eva davanti al Creatore e di Giuseppe che interpreta i sogni del faraone.
Testimonianza ormai sbiadita della curia carrarese, la sala degli Uomini illustri, o degli Imperatori, è chiamata dei Giganti dal 1540, quando il capitano di Padova Girolamo Cornaro promuove la sua ristrutturazione, su probabile progetto di Michele Sanmicheli, e quindi il rifacimento della decorazione pittorica.
Destinata a Pubblica Libreria dello Studio padovano dal 1632 al 1912, perduto il collegamento col palazzo carrarese a sud, a causa della demolizione della corte d’Onore nel 1877, la sala degli Uomini illustri è lambita nel 1937 anche dalla demolizione dei fabbricati contigui verso nord, destinati a depositi per i libri, che la separano dalla Corte del Capitaniato. Al loro posto sorge nel 1939 la nuova Facoltà di Lettere, opera dell’architetto Gio Ponti.
L’idea di rappresentare gli uomini illustri nella maggiore delle sale curiali dei Carraresi risale a Francesco il Vecchio, che trae gli argomenti per glorificare la virtus romana dal De viris illustribus, l’opera storica lasciata incompiuta da Francesco Petrarca e riassunta da Lombardo della Seta.
Dei 36 dipinti originari compiuti da Guariento, Altichieri da Zevio, Ottaviano Prandino da Brescia e Jacopo Avanzo rimangono solo i ritratti di Francesco Petrarca e Lombardo della Seta sulla parete occidentale. Le raffigurazioni attuali sono eseguite nel 1540 sulla falsariga delle precedenti, ormai deteriorate, e sono opera di Domenico Campagnola, Girolamo Gualtieri e Stefano dell’Arzere. Le 44 grandi figure di re, imperatori, consoli e dittatori romani sono inquadrate dal motivo architettonico delle colonne doriche che reggono la lunga cornice e il soffitto a cassettoni. Alla base le scene a chiaroscuro e le lunghe scritte raccontano la storia di ciascun personaggio.
Del palazzo “nuovo” di levante, restano probabilmente le strutture murarie della parte centrale, visibili da nord nello stretto cortile tra la loggia angolare, attribuita ad Andrea Moroni, e l’ampliamento interno del palazzo dei Conservatori, sul luogo della scala esterna ad L ancora presente nei rilievi settecenteschi. Ma visibili soprattutto da sud, con le cinque arcate a tutto sesto del portico, sostenute da alti pilastri in muratura.
Qui, dietro i due archi del portico che si affacciano sulla corte Arco Valaresso, restano ancora le spesse murature della torre meridionale d’ingresso alla reggia, il cui vano al primo piano fungeva da vestibolo alla perduta sala Tebana verso ovest e ora solo alla sala delle Edicole verso est. I resti delle archeggiature sopra le edicole, somiglianti a quelle sulla sommità di porta Molino, dimostrano che questo era il fronte orientale della torre aperto verso l’esterno.
La muratura laterizia non ancora intonacata del recinto della reggia, tra il Palazzo del Capitaniato e il Monte di Pietà, era ancora visibile sullo sfondo a destra in una foto della loggia della Gran Guardia datata circa al 1860 [10].
La consistenza originaria
Ubertino da Carrara, nominato signore e capitano generale di Padova il 10 marzo 1338, è ricordato dai cronisti per aver temperato la sua tirannia con diversi provvedimenti a favore della città e del territorio, come le mura della seconda corona e quelle del sobborgo d’Ognissanti, le pavimentazioni in trachite di alcune strade, il lanificio, la cartiera di Battaglia, la via per Camposampiero, il canale da Este a Montagnana, il castello di Este e, in particolare, la sua regale residenza prefettizia, chiamata, appunto, da Bernardino Scardeone “la reggia carrarese” [11].
Sull’attribuzione a Ubertino gli autori del tempo sono concordi. “Fe’ costui fare la corte e i pozuoli e quelle magne stancie che anchuodì se vede” annota Galeazzo Gatari [12]. “Lo stupendo palazzo recintato fu completato nel 1343 dal signor Ubertino” riporta Guglielmo Cortusi [13]. Mentre Pier Paolo Vergerio scrive che Ubertino “fece erigere nella residenza (dove un tempo Cangrande aveva iniziato la sua reggia) un portico quadrato con altissime colonne e lo volle di due piani, in modo da poter passeggiare a terra e in alto, riparato dalla pioggia. Nella parte interna della casa fece fare anche un altro portico, con la distanza tra le colonne pari all’altezza, formato da due soli lati rivolti verso settentrione e occidente, in modo che la visuale fosse libera verso quelle zone del cielo. Fece collocare sulla sommità della torre un orologio, il quale indicasse automaticamente di giorno e di notte gli spazi delle ventiquattr’ore” [14].
Nella cronaca dei Gatari s’incontra talvolta la citazione di qualche luogo facente parte della reggia. Ad esempio nel “bruollo dai pozuolli di soto” [15] cioè nel frutteto adiacente ai parapetti del portico inferiore, il 18 luglio 1355 si svolge l’episodio dell’arresto di Giacomino da Carrara per ordine del nipote Francesco il Vecchio, che era stato eletto per governare assieme allo zio nel dicembre 1350. Il 25 giugno 1386 è poi descritta la scena di Francesco il Vecchio che, alla notizia della rotta, poi rientrata, del suo esercito alle Brentelle sbatte per ira il cappello sul parapetto della loggia vicina alla cancelleria, dentro la corte [16]. Il 18 giugno 1390 è menzionata la “grande salla de l’inperadori, nela corte” dove si svolge il gran consiglio di tutti i cittadini di Padova [17].
Nella continuazione del Liber regiminum, alla data del 19 dicembre 1350, è ricordato l’assassinio di Giacomo II da Carrara, pugnalato da Guglielmo, figlio naturale di Giacomo I, mentre si scaldava un piede rivolto verso il camino nella stanza di Nerone [18].
Ma la maggior parte dei nomi delle stanze originarie della reggia ci vengono dai documenti d’archivio pubblicati in estratto da Andrea Gloria nel 1878 [19].
Poiché gran parte degli edifici sono andati distrutti, si può tentare una loro parziale ricostruzione solo mettendo a confronto la situazione attuale con le piante del complesso rilevate prima delle demolizioni ottocentesche, in particolare con quella del perito Giovan Battista Savio del 1729, nella riproduzione fatta ridisegnare nel 1936 dal rettore Carlo Anti [20], con quelle anonime del piano terra e dei piani superiori, conservate nella Biblioteca Civica [21], quelle del fondo Pivetta all’Archivio di Stato [22] e quelle jappelliane del Museo Civico [23].
Procedendo da ovest verso est, cioè dall’attuale via Accademia (già contrada dietro Corte) verso piazza dei Signori, nei documenti dell’epoca si trovano citati prevalentemente i posti che potevano essere frequentati dal pubblico ristretto dei dignitari di corte o degli ospiti, prima di tutto gli spazi esterni del brolo dei signori o viridario o cortile posteriore (in epoca veneziana semplice cortile prativo, detto praetto) con la loggia a due piani, (oggi detta dell’Accademia) delimitata da poggioli o parapetti anche al piano terreno, chiamata esterna per distinguerla da quella interna del quadriportico, sempre a due piani, detta anche chiostro o chiostro grande col pozzo e, più tardi, corte d’onore. Vi è poi il cortiletto al piede della scala lapidea che porta ai poggioli superiori (probabilmente nello stesso luogo dell’attuale scalone dei Giganti, costruito nel 1607 da Vincenzo Dotto), il cortile maggiore esterno (poi corte Capitaniato) e il cortile vicino alla stalla dei cavalli.
Il palazzo occidentale, detto anche vecchio, destinato prevalentemente da Ubertino alla propria residenza, era collegato al palazzo di levante, o nuovo – destinato alla residenza di Iacopo II – mediante un edificio centrale con peristilio interno, anch’esso detto nuovo nel 1347, che sul lato sud del piano superiore dava accesso alla sala Tebana [24], detta così per gli affreschi ispirati alla Tebaide di Stazio, e dirimpetto, a nord, alla sala degli Uomini illustri (chiamata anche sala degli Imperatori e poi dei Giganti e Biblioteca pubblica) nominata a partire dal 1382, mentre dal 1390 si cita una sala nuova degli uomini illustri. In capo alla sala Tebana, verso la cancelleria, si apriva una sala più piccola con “pitture a fresco de chiaro e scuro che contengono li fatti d’arme delli Carraresi” [25]. Al piano terreno, sotto alla sala Tebana , vi era la sala delle Bestie (quella maggiore con tre pilastri mediani) con la vicina stanza di Camillo, descritta da Angelo Sacchetti nel 1878, prima della sua distruzione [26].
Questa aveva accanto una stanzetta con stufa dove si conservava l’argenteria. La camera col camino dipinto con le storie di Ercole, detta stanza di Ercole, sede della cancelleria signorile, aveva delle finestre affacciate nel cortile grande esterno, poi corte Capitaniato.
La camera di Lucrezia, sempre al piano terra, era invece affacciata verso i poggioli esterni del verziere e faceva quindi parte delle stanze del palazzo vecchio occidentale, ed era vicina alla camera dei Carri. Al piano superiore del palazzo occidentale, sopra la stanza dei Carri, vi era la camera degli Ufficiali e, all’estremità ovest, la chiesuola, della quale è rimasta solo parte della parete affrescata occidentale.
Sono ricordate nei documenti d’inizio Quattrocento anche una camera delle navi, una camera delle Brentelle e una camera dell’Inferno. Altre stanze di difficile collocazione sono menzionate nei documenti d’epoca carrarese: le cucine, una loggia del bersaglio, una camera decorata a quadri, una delle prestanze per gli stipendiati sia equestri che pedestri, una del fattore, una di masseria, una per l’amministrazione dei beni, sia quelli del signore sia quelli del Comune di Padova, una delle armi, una degli operai, una delle scuole, ecc.
In conclusione, nelle citazioni d’epoca carrarese i locali sono identificati o dal loro notevole apparato decorativo o semplicemente dalla funzione che vi si svolgeva.
Dei documenti posteriori alla fine della signoria carrarese, ma precedenti alle trasformazioni cinquecentesche, va ricordato il Libellus, scritto attorno al 1446 dal medico Michele Savonarola [27]. Depurata dall’eccessivo uso dei superlativi, la descrizione di quella che è oramai diventata la curia del Capitano, menziona la porta d’ingresso sopra la quale è fabbricata una torre ornata con figure dipinte e conclusa con l’orologio che segna le ore del giorno e della notte e mostra anche le fasi della luna e del sole con i segni dei pianeti di quel giorno e di quell’ora. Conferma poi la presenza di due logge, una quadrata con colonne di marmo e con in mezzo il pozzo, di una stalla per trecento cavalli e di magnifiche cucine. Salite le scale d’onore si giunge in una loggia, che ha l’affaccio verso entrambi i cortili, circondata da parapetti, colonne di marmo e magnifiche finestre. Ai loro lati sono situate due amplissime sale dipinte, una detta dei Tebani e l’altra degli Imperatori. Nella residenza, degna appunto di un imperatore, vi sono stanze d’abitazione, camere per gli ospiti, uffici per gli amministratori, con una capacità complessiva di quattrocento posti. È infine nominato il traghetto, che conduce alle mura, protetto da merli da entrambi i lati, lungo un quarto di miglio e largo dodici piedi.
Le trasformazioni
Alcune conferme e le prime notizie sulle trasformazioni operate nel frattempo dai rettori veneti nel palazzo e corte del Capitanio sono fornite da Angelo Portenari nel 1623: “Vi si ascende per una scala, che è stata rifabricata, & adornata molto magnificamente da Pietro Moresini Capitano della città nell’anno 1611.
Ha camere, e stanze nobilissime, e molte sale veramente regali, una delle quali è nell’ingresso ridotta a gran splendore, e magnificenza l’anno 1607 da Giovanni Malipiero Capitano della città, l’altra è di grandezza notabile chiamata la sala verde, la terza è detta la sala de i giganti, perché in lei da dotta mano si vedono dipinte le imagini de gl’Imperatori Romani con statura di gigante, sotto le quali sono le vite loro composte con maravigliosa brevità e stile purgatissimo… Ha un atrio, o claustro con duplicata loggia, o portico, l’uno sopra dell’altro, li quali sono sostentati da settantadue colonne [erano invece 31 per piano] di marmo rosso con travature, e soffittati di legname fatti con gran diligenza. Appresso questo claustro dalla parte di Occidente si vede cominciato un altro claustro simile, dalla loggia superiore del quale si passa alla prima cinta delle mura per un corridore già chiamato il traghetto, il quale è fondato sopra dieci larghissimi & altissimi archi di pietra cotta… Ha questo palazzo dal Settentrione una spatiosa piazza chiamata la corte cinta di muraglie a modo di castello, e circondata da case, ove già (come hora) abitavano le guardie, la Corte del prencipe, & altri ministri publici. Nuovamente è stata abbellita di molte fabriche, che hanno la veduta sopra la piazza della Signoria, come sono le case delli Camerlenghi, e l’appartamento regale del Capitanio, fabriche fatte ne gli anni 1600, 1605 da Antonio Priuli già Capitanio di Padova, & hora Serenissimo Doge di Venetia, e da Stefano Viaro parimente Capitanio di questa città.
Ha questa corte due porte, che si risguardano, ma quella, che è verso la piazza, ha del regale sì per la grandezza, sì per gli adornamenti di colonne, e d’altri marmi, la quale fu fatta essendo Andrea Gritti Doge di Venetia. Sopra questa porta è una bellissima torre coperta di piombo, nella quale è quello artificiosissimo horologio, il quale oltra il battere, e mostrar dell’hore, mostra il giorno del mese, il corso del sole nelli dodeci segni del Zodiaco, li giorni della luna, gli aspetti dell’istessa col sole, & il suo crescere, e scemare...” [28].
Nel 1728 il capitano Francesco Corner incarica il perito Giovan Battista Savio di “portarsi sopra luoco in tutti li siti e quartieri di questa città ove sono poste case di pubblica ragione et ivi fare una descrittione d’ognuna d’esse nelle maniere più distinte che le saranno ordinate dal sig. Paulo Giustachini fiscalista di questa magnifica ducal camera, dovendo inoltre poner le case suddette a quartiero e quartiero in pianta con disegno ben distinto, et con le sue misure, e confini, che servir possa a perpetuo pubblico lume…” [29]. Mentre la descrizione dei locali è conservata manoscritta nella Biblioteca Civica, l’originale del rilievo planimetrico del Palazzo e della Corte Capitaniato, steso dal perito Savio nel 1729, è andato disperso. La copia, che qui si ripropone [30], interessa quasi per intero l’area dell’antica reggia carrarese, anche se è limitata ai soli piani terreni. Restano escluse le porzioni sud orientali del Monte di Pietà e i due angoli settentrionali, a est e a ovest di S. Nicolò.
Per ottenere notizie sulla qualità e consistenza degli edifici ancora esistenti nel XVIII secolo, piuttosto che le descrizioni di Paolo Giustachini, aventi finalità fiscali, è più conveniente seguire il dettagliato esame dei locali eseguito nel 1778 dal perito Lorenzo Corubolo, sottoscritto anche dal perito Andrea Sciotto, indirizzato ai lavori necessari per il restauro degli edifici, col relativo preventivo di spesa [31]. Seguendo l’ordine della descrizione, con alla mano le piante disponibili, s’identifica la sequenza e la denominazione delle sale.
Salita la scala maggiore del Capitaniato (quella dei Giganti), coperta di piombo con due cupolini, “passando dal Atrio che smonta la Scalla nelle prime Logie” il proto scrive che i soffitti sopra alle logge sono di “tolle cadenti”. La scala che discende in praetto, che vediamo anche nella pianta del Savio affiancata al muro occidentale del locale con la “rimessa de’ carozze”, è detta “scoperta”. Sono nominate le cinque camere sul lato ovest del loggiato interno ma “riguardanti il praetto” e poi i due scuri da farsi per i “finestroni riguardanti la Corte del Capitaniato” (evidentemente quelli della bifora ancora esistente all’angolo nord-est del loggiato). Passato nell’altra loggia, il perito osserva che anche qui è da rifare il soffitto, “essendo di tolle”. Osservando gli attuali soffitti in tavole di legno della loggia carrarese, possiamo immaginarci l’effetto di analoghi soffitti anche sulle logge della corte interna perduta.
Proseguendo, il Corubolo nomina quattro camere e chiesetta, alle quali deve essere rifatto il coperto, e sostiene che andrebbe otturata “una porta che a un tempo si passava alla mura vecchia, essendo ora superflua” (cioè l’ingresso al primo tratto del traghetto sopra i due arconi che oggi si vedono tamponati nella parete a ovest della loggia).
“Ritornando da detta [loggia] nelle altre [logge] su nominatte s’entra in un salotto per il quale si passa nella Cancellaria Prefeticia”: qui son da rifare quattro finestre. “Da detta Loggia si passa nel Salon Verde” dove bisogna “accomodar li scuri delli cinque finestroni”. “Nell’anticamera del detto… si passa ad una Loggia scoperta con suoi pozi di ferro”. “Ritornando nel Atrio che smonta la Scalla Maggiore si passa previo una scalinata di pietra in salla… Da detta salla si passa nella prima Camera del Appartamento Nobile.” Unendo queste annotazioni con quelle più antiche, sembra di poter dedurre che il salone Verde fosse la sala Tebana, mentre l’anticamera di collegamento con la cancelleria fosse il locale entro l’antica torre meridionale, probabilmente quello affrescato con i chiaroscuri dei Carraresi. La sala con accesso dalla scala (semicircolare) di pietra è quella delle Edicole, dalla quale si accedeva alle camere della cancelleria.
Nel corso del Settecento si segnalano anche altre descrizioni di lavori da eseguire come quelle del perito Corubolo e fatture di riparazioni avvenute soprattutto nei quartieri che servono alla milizia della guardia al piano terra [32] e nella Cancelleria Prefettizia superiore e di abitazione alli Ministri dello stesso Offizio [33] più che nelle residenze del Capitanio e dei Camerlenghi, ricavate con grandi lavori nel corso del Cinquecento nei fabbricati prospicienti la piazza dei Signori.
Dopo la distruzione del traghetto nel 1777, su richiesta dei proprietari dei palazzi e dei giardini attraversati dalla via pensile [34], le altre demolizioni, suddivisioni e vendite all’asta ebbero tutte luogo nel corso del XIX secolo, fino al vincolo del 16 febbraio 1880, posto anche sul “Palazzo e corte del Capitaniato” dalla Commissione conservatrice dei monumenti, oggetti d’arte e antichità. Nel 1820 il Demanio austriaco mette in vendita, tra l’altro, la maggior parte delle colonne del portico di Ubertino rivolto verso occidente, che “acquistò il conte Nevio di Vicenza che se ne servì nella stalla di una sua villeggiatura” [35].
Dopo l’acquisto dal Demanio italiano effettuato nel 1871 delle case in rovina tra le due corti e redatti alcuni progetti con diverse destinazioni per l’area delle logge carraresi [36], nel 1873 il Comune di Padova inizia la demolizione delle “catapecchie” che s’innestavano nell’ala orientale della loggia affacciata sul praetto. Nel 1877, all’indomani della legge Coppino del 15 luglio sull’obbligo dell’istruzione primaria, il Comune incarica l’architetto Camillo Boito della redazione del progetto per un nuovo fabbricato per le scuole elementari maschili e femminili. L’anno successivo, in conformità al progetto, assai pregevole sotto ogni aspetto, tranne che in quello dell’inserimento nel contesto, sono demoliti gli edifici del quadriportico centrale con le sale meridionali, le stanze occidentali col resto del lato est della loggia e tagliate a metà le due camere sovrapposte all’estremità orientale del palazzo di ponente [37]. Con buona dose di cinismo, almeno per i nostri occhi, le scuole elementari saranno chiamate “Carraresi”.
[1] Questo contributo sulla Reggia dei da Carrara riprende il titolo della comunicazione tenuta dall’autore il 30 novembre 2007 presso l’Accademia Galileiana e il testo del saggio inserito nel volume a cura di D. Banzato e F. d’Arcais, I luoghi dei Carraresi, Treviso 2006, pp. 86-98, qui riprodotto con l’autorizzazione dell’autore e dell’editore con modifiche, con l’aggiunta delle note stralciate dall’edizione a stampa e con nuove immagini. Salvo diversa indicazione nelle note o nelle didascalie, le foto a colori sono dell'autore. torna alla lettura
[2] A. Gloria, Documenti inediti intorno al Petrarca con alcuni cenni della casa di lui in Arquà e della reggia dei da Carrara in Padova, Padova 1878, p. 12. torna alla lettura
[3] C. Gasparotto, La reggia dei da Carrara il palazzo di Ubertino e le nuove stanze dell’Accademia patavina, Padova, 1968, p. 6 e 7. G. Lorenzoni, L’intervento dei Carraresi, la reggia e il castello, in Padova case e palazzi, a cura di L. Puppi e F. Zuliani, Vicenza 1977, p. 29. G. Visentin, La reggia carrarese, in Padova e il suo territorio, n. 25, giugno 1990, p. 13 con le quattro planimetrie d’impianto del complesso nelle varie epoche. torna alla lettura
[4] G. Cagnoni, Palazzo Montorsi a Padova: analisi stratigrafica e progetto, in Galileo n. 55, maggio 1994, p. 7-10. torna alla lettura
[5] G. Baroni, Nuovi contributi alla conoscenza della “curia carrariensis”: risultati di un’analisi storico-filologica e delle ricerche e rilievi nel settore sud-ovest, Padova, 1984, p.13. Si veda anche, dello stesso autore, I resti della cinta fortificata dell’”insula” carrarese in Padova e il suo territorio n. 25, giugno 1990, p. 44-46, da cui sono tratte la foto e il disegno qui riprodotti. torna alla lettura
[6] Si veda il saggio di S. Tuzzato nel volume a cura di D. Banzato e F. d’Arcais, I luoghi dei Carraresi, treviso 2006, pp. 72-79. torna alla lettura
[7] A. Tambara, Relazione tecnica sulle opere di restauro e sistemazione della sede dell’Accademia di Scienze Lettere ed Arti nella reggia dei da Carrara in Padova, in Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti, anni 1968-1969, vol. LXXXI, parte I, p. 33-56. torna alla lettura
[8] G. Baroni, Il recupero e il restauro del palazzo Anselmi ad integrazione della sede dell’Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti, in Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti, anni 1987-1988, vol. C, parte III, p. 17-21. torna alla lettura
[9] C. Gasparotto, Gli ultimi affreschi venuti in luce nella Reggia dei da Carrara e una documentazione inedita sulla camera di Camillo. Atti e memorie dell’Accademia Patavina, anno 1968-1969 Vol LXXXI, p. III, p. 237-242. torna alla lettura
[10] La fotografia, attribuita ad Antonio Perini, è pubblicata in Padova. I fotografi e la Fotografia dell’Ottocento, a cura di G. Vanzella, p. 75. torna alla lettura
[11] B. Scardeone, Historiae de Urbis Patavii antiquitate, et claris civibus patavinis, Basilea 1560, ora Bologna 1979, p. 317 (279). torna alla lettura
[12] G. e B. Gatari, Cronaca carrarese, a cura di A. Medin e G. Tolomei, R.I.S., t. XVII, P. I, Vol. I, Città di Castello, 1931, p. 23. torna alla lettura
[13] G. Cortusii, Chronica de novitatibus Padue et Lombardie, a cura di B. Pagnin, R. I. S. t. XII, parte V, Bologna 1941, lib. VIII, cap. XI, p. 106: “Hoc anno [1343] expletum fuit palatium calustrale mirificum domini Ubertini et aliud inchoatum”. torna alla lettura
[14] P. P. Vergerio, Vitae principum Carrariensium, a cura di A. Gnesotto, Padova, 1925, p. 99: “Porticum quadratam altissimis columnis in aedibus struxit, (ubi Canis grandis habere prius regiam coeperat), eamque diplicem esse voluit, ut et humi et sublimi deambulare liceret, ab imbre tectos. Aliam quoque in interiori domo, pari altitudine et intercolumniorum distantia, perfecit, quam duobus tantum lateribus constare iussit in septentrionem occasumque spectantibus, ut esset prospectus in eas coeli plagas liber. Horologium, quo per diem et noctem quattuor et viginti horarum spatia sponte sua designaretur, in summa turri constituendum locavit.” torna alla lettura
[15] G. e B. Gatari, Cronaca carrarese, cit. p. 31. torna alla lettura
[16] Ivi, p. 249. “…il prefato signore pieno d’intollerabile dolore s’avia più volte di capo tratto per ira il cappello e di quello datto sopra la sega di la logia, dove è la cangielaria, dentro la corte e con i denti rodando con isdegno…” torna alla lettura
[17] Ivi, p. 408. torna alla lettura
[18] Liber regiminum Padue, R.I.S., t. VIII, p. I, a cura di A. Bonardi, Città di Castello 1904, p. 369. torna alla lettura
[19] A. Gloria, Documenti inediti, cit. doc. VI, p. 35-38. torna alla lettura
[20] G. Brunetta, L’isola delle facoltà di Lettere e Magistero sulle aree e tra i resti della ex-Reggia dei Carraresi in Gli interventi dell’Università di Padova nel riutilizzo di antichi edifici, Istituto di Architettura dell’Università di Padova, Padova 1966, pp. 84-107. Una copia, tratta da negativo Danesin del 1959, conservato nell’Archivio fotografico della Soprintendenza ai Monumenti di Venezia, è appesa in una stanza dell’ammezzato nell’Accademia Galileiana. Un’altra copia, definita “pianta dei primi del XVIII sec. in nostro possesso” è pubblicata anche da G. Vasoin, La Signoria dei Carraresi nella Padova del ‘300, Padova, 1987, fig. 4 tra le p. 24 e 25. Da una stampa originale 18x24 della Foto Danesin di Padova, messa a disposizione da V. Dal Piaz, che qui ringrazio, è stata tratta l’immagine qui pubblicata. torna alla lettura
[21] B.C.P., R.I.P. XI, 1560 e 1561, negat. 9x12 n. 981 e 982. Pubblicate, tra l’altro, anche da G. Lorenzoni, L’intervento dei Carraresi, cit. fig. 46 e 47. torna alla lettura
[22] A.S.P., Fondo Pivetta, 65/1, 65/2, 65/3 e 65/5. torna alla lettura
[23] M.C.P., Cartolare Jappelli, cartella 49, 8978 F e 8979. torna alla lettura
[24] A. Gloria, Documenti inediti, cit. doc. VI p. 35. Anno 1347. “In palacio habitationis domini Jacobi de Carraria Padue et districtus domini generalis in eius sala nova superiori ubi depicta est ystoria Thebana”, sta in A.S.P., Corona, b. 149, 2314, num. gen. 7787: 17 luglio 1347. torna alla lettura
[25] M. A. Michiel, Notizia di opere di disegno, pubblicata e illustrata dall’abate Morelli, a cura di G. Frizzoni, Bologna 1884, p. 77: “Nella sala ultima piccola verso la casa del Cancellier, in capo alla Sala Tebana, le pitture a fresco de chiaro e scuro, che contengono li fatti de armi delli carraresi, e ordinanze ec. furono de mano de…” Cesira Gasparotto identifica questa sala con la sala verde, mentre è più probabile la coincidenza della maggiore sala tebana con quella che sarà più tardi chiamata sala verde, sede delle adunanze dell’Accademia dei Ricovrati. In C. Gasparotto, La reggia dei da Carrara, cit. p. 22, n. 63 ove ricorda che la sala verde è nominata in G. B. Rossetti, Descrizione delle pitture, sculture e architetture di Padova, Padova 1765, p. 291. Ma l’identificazione è messa in dubbio da G. Lorenzoni, L’intervento dei Carraresi, cit. p. 33, n. 22, che sposta la collocazione della sala tebana nel palazzo di ponente. torna alla lettura
[26] A. Sacchetti, Relazione d’alcune tracce d’intonaco affresco comparso in una sala terrena nella Reggia dei Carraresi con due lucidi di alcune teste presi dal medesimo dipinto, indirizzata alla Giunta Municipale di Padova il 16 Agosto 1878. Doc. all. A in: C. Gasparotto, Gli ultimi affreschi, cit. p.256-259. torna alla lettura
[27] Libellus de magnificis ornamentis regie civitatis Padue Michaelis Savonarole, a cura di A. Segarizzi, R.I.S., t. XXIV, parte XV, Città di Castello 1902, p. 49. torna alla lettura
[28] A. Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1623, p. 104. torna alla lettura
[29] P. Giustachini, Nuovo Catastico e distinta descrizione di tutte le case che sono ed erano di pubblica ragione poste nella città di Padova…, 1729, Ms. B. P. 393. torna alla lettura
[30] V. nota 20. torna alla lettura
[31] A.S.P., Strade, piazze, mura…, b. 47 bis, L. Corubolo e A. Sciotto, Perizia sui restauri da farsi nelle Pubbliche Fabbriche, 28 ottobre 1778, c. 133-140. torna alla lettura
[32] A.S.P., Strade, piazze, …fabbriche, b. 47 bis, perito A. Giaconi, 25 luglio 1776. Sono riconoscibili dalle misure del quartier grande lungo piedi 73 e largo piedi 30 (circa m 25,5x10,5) la sala carrarese delle bestie e nell’altro quartier longo piedi 33 e largo piedi 18 (m 11,5x6,3) la camera di Camillo. torna alla lettura
[33] Ivi, perito D. Cerato, 29 luglio 1776 e S. Vidali Cornetta, 30 agosto 1784. torna alla lettura
[34] G. Rusconi, Il “Traghetto” della Reggia Carrarese, Atti e Memorie dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Padova, 1928-1929, vol. XLV, parte III, p. 170. torna alla lettura
[35] A. Gloria, Pro memoria del 3 marzo 1880, doc. all. C in: C. Gasparotto, Gli ultimi affreschi, cit. p. 244. torna alla lettura
[36] T. Serena, Scuole elementari alla reggia carrarese, in Camillo Boito, un’architettura per l’Italia unita, catalogo della mostra a cura di G. Zucconi e F. Castellani, Venezia 2000, p. 98. torna alla lettura
[37] Si veda la pianta dell’isola detta ex Capitaniato disegnata dall’ingegnere comunale Francesco Turola, in A.S.P., Atti Comunali, b. 2863, 31 agosto 1877, pubblicata da C. Gasparotto, Gli ultimi affreschi, cit. p. 245 e da T. Serena, Scuole elementari, cit. p. 100. torna alla lettura
Il castello di Ezzelino
Il problema del castello di Ezzelino a Padova, della sua estensione e consistenza e di cosa eventualmente ne rimanga oggi, è tuttora aperto e quasi privo di risposte certe.
Le stampe sette-ottocentesche che raffigurano il castello di Padova, quando non fanno riferimento alla specola, titolano "Il castello di Ezzelino" e ancora di recente alcuni studiosi hanno usato senza problemi questa definizione. Solo negli ultimi anni le si è sostituita quella di "Castello carrarese", anche se, proprio per la sua lunga, anche se non ancora chiarita, storia precedente, la definizione più appropriata, a nostro parere, rimane quella di "Castello di Padova".
In effetti, salvo poche tracce più antiche, quanto oggi vediamo appartiene al castello carrarese trecentesco; a sua volta peraltro non semplice da ricostruire nella sua forma originaria, dopo le manomissioni Sette e Ottocentesche.
Ricapitoliamo qui, sulla base di quanto finora pubblicato e noto a chi scrive, senza pretese scientifiche, lo stato delle conoscenze riguardo alla fase ezzeliniana del castello. Per ogni approfondimento e verifica di quanto esposto si rimanda alla bibliografia indicata nelle note.
Le fonti storiche
Sappiamo con certezza dai documenti che Ezzelino III da Romano, subito dopo aver conquistato definitivamente Padova nel 1237, procedette alla costruzione di un nuovo castello. Le cronache a lui contemporanee [1] ci forniscono poche informazioni, seppure preziose, come l'anno di inizio dei lavori, il 1242, il fatto che avesse due torri, e tetre prigioni in almeno una di esse, e che il suo perimetro inglobasse la antica chiesa di S. Tommaso, che per tale ragione fu ricostruita più a nord, dove ora si trova la sua edizione seicentesca. Almeno la sua localizzazione è dunque sicura: la stessa della precedente Turlonga e del successivo castello carrarese.
Le notizie, quasi tutte di parte avversa ai Da Romano, sono accompagnate da truci racconti riguardo alle caratteristiche e all'uso delle prigioni, ma in particolare al destino del loro supposto artefice, il milanese Zilio (da cui le torri presero il nome di Zilie), che avrebbe finito i suoi giorni nelle orribili prigioni da lui stesso progettate con grande zelo [2].
I dati archeologici
L’unico dato di cui oggi siamo sufficientemente certi è che la maggiore delle due torri Zilie altro non fosse altro che la preesistente Turlonga, eventualmente ricostruita da Ezzelino su precedenti resti diroccati, o comunque aggiornata (e successivamente conservata, con ulteriori rifacimenti, nella versione carrarese del castello e infine trasformata nel Settecento nell’attuale Specola). E’ infatti accertato che almeno la base della torre sia precedente, per materiali e modi costruttivi, al Duecento, e sia quindi la Turlonga citata nei documenti a partire dal 1062 [3], e dato che è certamente anche una delle due torri del castello carrarese, è logico concluderne che facesse parte anche del castello di Ezzelino assieme al piccolo ridotto, di costruzione coeva o di poco posteriore, che la circondava sui lati nord ed est [4].
Di conseguenza è ragionevole ritenere che pure la seconda torre del castello carrarese, quella ad est verso piazza Castello, possa essere un aggiornamento della seconda Zilia del castello di Ezzelino. In mancanza di prove archeologiche e stante l'incertezza sulla effettiva estensione del castello di Ezzelino, questa rimane però soltanto un'ipotesi
Un terzo elemento, scoperto durante i recenti scavi archeologici all’interno della torretta che proteggeva uno dei due ingressi del castello carrarese, verso il Tronco Maestro, accanto alla Torlonga, potrebbe, secondo l’indicazione dell'archeologo Stefano Tuzzato [5], appartenere al castello di Ezzelino: si tratta dell’alloggiamento dei cardini di un portone che restringe la luce della grande porta urbica comunale oggi “nascosta” all’interno della torretta. E' quindi posteriore alla porta comunale, realizzata fra 1195 e 1210, ma precedente alla torretta, che con la sua doppia porta, carraia e pedonale, si sostituì a sua volta al portone nel corso del Trecento: è quindi ragionevole ritenere che il portone più stretto costituisca la trasformazione della porta da pubblica a porta del castello e che quindi la si debba attribuire al tiranno.
Null’altro di concreto si conosce del castello di Ezzelino: neppure delle famigerate prigioni si è trovata traccia certa, almeno finora, né all’interno della Torlonga, né della seconda torre. Manca ancora un’analisi stratigrafica completa delle murature del castello, ma a quanto si sa tutte quelle esaminate finora sono risultate di epoca al più trecentesca, salvo quanto visto nel sondaggio archeologico all’esterno della torretta già citata, dove però le tracce precedenti si riferivano ad epoche assai più remote e quindi non in relazione con Ezzelino [6].
Si deve però dare per scontato che il castello ezzeliniano inglobasse il piccolo ridotto già esistente attorno alla Torlonga, visto che si allarga abbastanza da inglobare nella sua cinta la porta comunale di cui si è detto, che diventa porta del castello. Inoltre, se si accetta che la seconda torre sia la stessa del castello carrarese e si tiene conto dell’inglobamento nel suo perimetro della chiesa di S. Tommaso, è ragionevole supporre che l'area occupata dal castello potesse coincidere grosso modo con quello della successiva ricostruzione carrarese. Del resto, il breve torno di tempo, quattro anni, in cui Niccolò della Bellanda, su ordine di Francesco il Vecchio da Carrara, procedette alla “costruzione” del nuovo castello, con tutto il complesso apparato decorativo che oggi si va riscoprendo, fa pensare alla ristrutturazione, diremmo oggi, di una struttura esistente, piuttosto che ad una costruzione ex-novo.
Le leggende
Delle prigioni si è detto: non si è trovata conferma che fossero nelle torri, nonostante la lapide del 1618 che ne ricorda l'esistenza nella Torlonga [7], il ché naturalmente non esclude che potessero essere da qualche altra parte del castello. Il carattere efferato e sanguinario del Da Romano, definito e fissato da una tradizione a lui avversa, è stato in parte ridimensionato dalla storiografia più recente, come del resto il suo deleterio influsso sulla città di Padova, che invece a quanto pare continuò a prosperare anche sotto la sua tirannia, ma di certo prigioni nel castello dovevano esserci e, secondo gli usi dell’epoca, non erano certo luoghi confortevoli.
Dubbia è pure la storicità della figura dell’architetto Zilio, il cui nome è riportato solo da Pietro Gerardo, la cui attendibilità è spesso messa in dubbio dagli storici: la leggenda che lo riguarda sembra infatti più una parabola esemplare costruita ad arte che una storia reale. Pare però certo che le due torri furono effettivamente a lungo note come Zilie, quindi è d’obbligo sospendere il giudizio in proposito.
E’ stata invece definitivamente smentita la notizia data per primo dal Salomonio nel 1701 [8], e riportata da Giuseppe Lorenzoni [9], secondo la quale sul muro della seconda torre, quella verso piazza Castello, era ancora visibile all'epoca un bassorilievo con le insegne di Ezzelino. Il bassorilievo effettivamente c’era, fu smontato all'epoca della trasformazione del castello in carcere, che comportò la drastica riduzione in altezza della torre, e dopo qualche passaggio intermedio è approdato ai Musei Civici, dove è tuttora esposto. Solo che non si tratta affatto delle insegne di Ezzelino: il cimiero con lo struzzo coronato, con un ferro di cavallo nel becco e lo scudo bipartito con a destra i gigli angioini, sono le insegne di Luigi il Grande d’Ungheria, storico e più importante alleato dei Carraresi e in particolare di Francesco il Vecchio nelle guerre contro Venezia [10]. Cimiero e stemma si possono oggi vedere negli affreschi scoperti nel 2007 in una cella del carcere, rivelatasi importante sala di rappresentanza del castello carrarese.
L’infortunio storico (al quale si accodava anche Giovan Battista Verci, che pubblicava anche l'incisione di un altro bassorilievo esistente allora sotto la loggia della corte del castello, anch'esso raffigurante il cimiero di Luigi il Grande e non quello di Ezzelino [11]) si è purtroppo trasformato in “leggenda metropolitana”, con effetti ormai difficili da sanare, visto che l’attribuzione dell'insegna ad Ezzelino continua a venire riconfermata su pubblicazioni d'ogni genere, dopo aver prodotto l’effetto collaterale di far adottare quel cimiero, pur con diversi colori, come parte del proprio stemma dal comune di Romano d’Ezzelino (e la sola testa di struzzo anche da quello di S. Zenone degli Ezzelini).[12]
Ugo Fadini, 2010
[1] Rolandini Patavini Cronica circa facta et factis Marchie Trivixane, a cura di A. Bonardi, R.I.S., t. VIII, p. I, Città di Castello 1906-8, p. 77: “Hoc eodem anno, mense augusti, inceptum est castrum, quod Ecelinus fecit in Padua fieri circa ecclesiam sancti Tomasii, ipsa ecclesia circumdata et clausa in castro”. Ma anche nel Liber Regiminum Padue, R.I.S., t. VIII, p. I, a cura di A. Bonardi, Città di Castello 1904, p. 315: “Et die XVI septembris MCCXLII inceptum fuit castrum Sancti Thomasii de Padua”. torna alla lettura
[2] P. Gerardo, Vita et Gesti d’Ezzelino terzo de Romano, de l’origine al fine di sua famiglia, sotto la cui tirannide mancarono di morte violenta più di XII millia Padovani, Venezia 1543, c. 60. Il racconto è anche in Rolandino, op. cit., ma non viene nominato Zilio. torna alla lettura
[3] A. Gloria, Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l’undecimo, Venezia 1877, vol. I, d. 185, 21. Nominata poi anche in un documento del 21 agosto 1102, in P. Sambin, “Nuovi documenti padovani dei secoli XI e XII”, Venezia 1955, d. 2, 2. torna alla lettura
[4] S. Tuzzato, Il Castello di Padova fino ai Carraresi e le nuove ricerche (1994-2004), in I Luoghi dei Carraresi, a cura di Davide Banzato e Francesca d’Arcais, Canova Edizioni, Treviso, novembre 2006, pp. 72-75. torna alla lettura
[5] Ivi, pp. 75-76. torna alla lettura
[6] Ivi, pp. 72. torna alla lettura
[7] A. Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1623, p. 87. torna alla lettura
[8] J. Salomonio, Urbis patavinae inscriptiones sacrae et prophanae, Padova, 1701, p. 544. torna alla lettura
[9] G. Lorenzoni, Il Castello di Padova e le sue condizioni verso la fine del secolo decimottavo, Padova 1896, p. 20. torna alla lettura
[10] P. Dal Zotto, Luigi il Grande, re d’Ungheria, nel castello carrarese, in Padova e il suo Territorio n. 138, aprile 2009, p. 22. torna alla lettura
[11] G.B. Verci, Storia degli Ecelini, Bassano 1779, p. 189-191. torna alla lettura
[12] Per approfondire l'argomento, si consiglia la lettura di: P. Dal Zotto, Stemma e insegne di Ezzelino: un persistente equivoco.
La dismissione del carcere avvenuta alla fine del secolo scorso ha riconsegnato alla città, che lo sta lentamente riscoprendo, uno dei suoi monumenti più importanti, che, proprio per il quasi bisecolare utilizzo come carcere, era stato del tutto dimenticato, nonostante la presenza di una piazza Castello e, poco distante, di una torre di aspetto inequivocabile, ma per i padovani ormai nota solo come torre della Specola, essendo stata per oltre due secoli l'osservatorio astronomico dell'Università.
Sotto le spoglie del carcere sta dunque ritornando alla luce, pur mutilo in molte sue parti, un castello che nella sua forma finale, quella datagli dai Da Carrara e in particolare da Francesco il Vecchio negli anni fra il 1374 e il 1378, fu non solo una struttura militare, ma una residenza signorile di grande magnificenza, decorata di affreschi, che si stanno riportando alla luce, con eleganti logge, purtroppo perdute, e quant'altro si addiceva alla residenza di un monarca.
Il castello di Padova non nacque con i carraresi. Un piccolo castello, attorno alla Turlonga, oggi Specola astronomica, sorse già nell'XI, se non addirittura nel X secolo. Con la ricostruzione di Ezzelino III da Romano fu ampliato e dotato di una seconda torre, ma furono senza alcun dubbio i carraresi, e Francesco il Vecchio in particolare, a farne la reggia che oggi sappiamo essere stato il castello carrarese. Definizione che può quindi essere accettata, accanto a quella, forse più corretta, vista la sua lunga storia precedente, di castello di Padova.
- Le fasi dell'evoluzione del castello di Padova sono illustrate in dettaglio alle voci relative nel menu qui a sinistra:
Le origini
Il castello di Ezzelino
Il castello carrarese
Contributi e materiali
- Per una storia concisa vi rimandiamo ai capitoli relativi della Storia in breve
- Foto del castello e in particolare delle sale affrescate scoperte di recente si trovano nel reportage delle giornate di visita di aprile 2009
- Sul problema del restauro e riuso del castello, nella sezione Il dibattito potete trovare un articolo di Vittorio Dal Piaz e un documento congiunto del Comitato Mura e del FAI
Bibliografia di base
La letteratura sul castello di Padova è ormai abbastanza consistente. Ci limitiamo qui a segnalare:
- I luoghi dei Carraresi, a cura di Davide Banzato e Francesca d'Arcais, Canova, Treviso 2006, che contiene le informazioni più aggiornate nei saggi di Adriano Verdi, Antonio Draghi, Stefano Tuzzato e Anna Maria Spiazzi (il saggio di Adriano Verdi è ora disponibile su questo sito, con nuove illustrazioni e le note, omesse nell'edizione a stampa).
- Il castello di Padova. Archeologia e storia, Stefano Tuzzato, in Castelli del Veneto tra archeologia e fonti scritte, Atti del convegno, Vittorio Veneto, Ceneda, settembre 2003, a cura di G.P. Brogiolo, E. Possenti, SAP Società Archeologica, Mantova 2005, che contiene la trattazione più ampia dal punto di vista archeologico e tutta la bibliografia precedente.
- Il Castello carrarese. Per la storia delle decorazioni d'interni a Padova nella seconda metà del Trecento, Anna Maria Spiazzi, in Dipinti e sculture del Trecento e Quattrocento restaurati in Veneto, a cura di A.M. Spiazzi e F. Magani, Canova, Treviso 2005, dove sono analizzati gli affreschi riscoperti fino agli anni Novanta.
- Il castello di Padova, Ettore Bressan, Canova, Treviso 1986, unica monografia recente sull'argomento.
- Il castello di Padova e le sue condizioni verso la fine del secolo decimottavo, Giuseppe Lorenzoni, Tipografia Randi, Padova 1896, ristampa anastatica Signum Edizioni, Padova 1983, che è invece l'opera più antica, ma contiene una ancora utilissima ricognizione dello stato di fatto a fine Settecento.
Adriano Verdi
Il castello carrarese [1]
Le fasi costruttive
Dopo che Berengario I nel 915 concede al vescovo di Padova Sibicone di provvedere alla difesa della sua chiesa, ovunque fosse necessario, con l’edificazione di un castello con mura, merli, fossati, bertesche e celate [2], già nel 950 le fonti scritte testimoniano della presenza di un castro patavino [3] e di un secondo castello, identificabile con quello del duomo [4]. Nel 1062 un documento nomina la Turlonga [5], posta alla biforcazione dei corsi d’acqua che circondano la città. Nel Liber Regiminum Padue all’anno 1242, dopo le prodezze distruttive di Ezzelino III da Romano (in marzo l’incendio e l’occupazione di Montagnana; in settembre la devastazione di Este, l’incendio del borgo di Baone e la distruzione della torre di Cinto), è annotato l’inizio del castello di S. Tommaso a Padova [6]. Con più precisione Rolandino scrive nella sua Cronica che “in quello stesso anno [1242], nel mese di agosto, fu iniziato il castello, che Ezzelino fece fare a Padova attorno alla chiesa di S. Tommaso, circondando e chiudendo la chiesa nel castello” [7]. Tuttavia i padovani, almeno “quelli che desiderano equità e giustizia”, non lo intendono come fatto positivo, temendo che il castello diventi non uno strumento di protezione ma un ulteriore dispositivo di oppressione e di terrore. Ma vi sono anche quelli che “si gloriavano del male che andava crescendo e provavano un’indicibile esultanza, accecati tanto da un’ambizione insaziabile ed iniqua quanto dal timore del tiranno”. E qui Rolandino, per esemplificare, si sofferma a raccontare di “un tale che chiese con insistenza ad Ezzelino la grazia di fargli progettare non la disposizione delle camere del palazzo del castello, ma del carcere e della stanza delle torture. Accogliendo la grazia concessagli con animo lieto, costui sollecitò l’acume di tutto il suo zelo e di tutto il suo ingegno e come artefice sovrintese agli operai zelante, assiduo e digiuno per più giorni, per concludere con successo quel che aveva concepito nell’animo. Ma si rallegrino le anime dei morti nel castello! Poiché colui che tanto spesso era entrato di sua spontanea volontà nel carcere, quando veniva costruito, osservando attentamente, anzi ordinando, che nel carcere non rilucesse alcuno spiraglio di luce – volendo fare un luogo tenebroso, pieno di porcherie e immondizie, triste, tartareo, orribile e mortale – proprio quell’artefice stesso, in seguito preso e rinchiuso per ordine di Ezzelino, oppresso da fame, sete, vermi e fetore e dalla mancanza d’aria, come un lupo che ulula, perì miserevolmente e venne meno nel luogo così infernale che aveva preparato. Egli, a mio avviso, fu simile a quel buffone che, desiderando compiacere il suo re e signore, che gli chiedeva una tortura di genere inusitato, fece fabbricare un toro di bronzo, in cui escogitò di chiudere i colpevoli di modo che, posto intorno e acceso il fuoco, il re sentisse il toro miserevolmente muggire. Ma il re, in ciò veramente giusto e degno di memoria, volle che il buffone, ossia l’artefice, fosse il primo che in tale modo muggisse in tale bestia. Così chi macchinava per gli altri una cosa peggiore della morte, patì a sua volta una cosa peggiore della morte. E così è chiaro che era giusto per l’artefice tanto del carcere quanto del toro non soltanto contemplare ciò che aveva davanti agli occhi. D’altra parte la loro prudenza avrebbe dovuto considerare attentamente come sarebbero andate a finire le cose” [8]. Rolandino non nomina il progettista del carcere, che secondo Pietro Gerardo – fonte cinquecentesca di dubbia attendibilità – sarebbe stato l’architetto milanese Zilio[9].
Secondo la prudente analisi dei testi condotta da Aldo Settia, non è accertata la coincidenza del sito della Torlonga col luogo del castello fatto costruire da Ezzelino [10]. Tuttavia, se ricerche archeologiche sull’attuale torre della Specola non sono ancora state compiute, le analisi stratigrafiche condotte alla base della porta occidentale del castello [11] hanno già fornito alcune prove importanti della permanenza nello stesso sito di imponenti fortificazioni romane e di un dongione altomedievale con torre e recinto sui due lati verso città. A questa robusta struttura, senza sostituirsi ad essa, si attestano verso est e verso nord le mura di epoca comunale. Segue l’intervento ezzeliniano, del quale però sono finora confermati solo i resti della porta verso ovest.
Nel secolo successivo avvengono le trasformazioni più significative. Dovrebbero essere di epoca carrarese, infatti, alcune delle principali strutture del castello giunte fino ad oggi. Il cronista padovano Galeazzo Gatari (1344-1405) iscritto alla fraglia degli speziali con bottega nella contrada di Santa Lucia, ma anche autorevole ambasciatore e tesoriere di Francesco il Vecchio, signore di Padova, nella Cronaca carrarese trascritta dal figlio Bartolomeo, alla data del 9 maggio 1374 riporta l’edificazione del castello di Padova con queste parole: “Marti, dì 9 de mazo, col nome di l’altisimo Dio e di santo Prosdocimo, san Danielle, santo Antonio, santa Iustina, protetori di questa cità di Padoa, dita una solenne messa, fu principiato il castello dila cità di Padoa, che da san Tomaxo è apresso la tore de misser Ecelin; ala quale edificacione fu a farllo il provido omo maestro Nicollò da la Belanda, ingegnero dil prefato signore, e in questo dì promesse di darllo conpido d’ogni raxone fortificò perfino a 4 anni prosimi futuri, non gli mancando le cose oportune per quello” [12]. La torre di Ezzelino che viene citata è forse quella maggiore, cioè la vecchia Torlonga probabilmente ristrutturata.
Ma la versione della cronaca trascritta e rivista successivamente dall’altro figlio di Galeazzo, Andrea Gatari, è diversa da quella del fratello in un punto cruciale, dato che attribuisce ad Ezzelino la paternità di entrambe le torri del castello: “Dubitando il signore messer Francesco da Carrara, signore di Padoa, della vita sua, et massime per li casi occorsi due volte, deliberò di assicurarsi al più che potesse; et fecce pensiero di fare un castello forte nella città di Padoa, et avuto consiglio da un valente ingegnere, nominato maestro Nicolò della Bellanda, e mostratigli più luoghi della città, ove si dovesse fare, che stesse meglio, alla fine deliberarono di farlo a S. Tommaso, et a S. Agostino, ove erano e sono le torri del perfido messer’ Eccelino da Romano, come in luogo più forte della città. E così gli dette principio nel giorno e millesimo scritto, che fu alli 9 di maggio 1375 [leggi 1374] [13]. Il quale castello fu fatto de’ beni de i cittadini di Padoa, perché così volle il signore; e secondo la condizione e qualità degli uomini erano tassati i pagamenti: cosa non solita, e molto molesta a tutta la città” [14].
Anche se Andrea Gatari, nato all’incirca all’epoca della costruzione del castello carrarese, non poteva far conto su suoi ricordi diretti, tuttavia questa testimonianza non dovrebbe essere casuale, vista anche la tradizione successiva di denominare “Zilie’ le due torri, dal nome dell’architetto del carcere ezzeliniano. Sarebbe, dunque, da attribuire ad Ezzelino anche la costruzione di una seconda torre, che non può essere che quella sul lato orientale, di guardia alla porta verso la città, poiché quella torre, ancor oggi superstite, contiene decorazioni d’epoca carrarese ed era quindi quella esistente al tempo dei Gatari [15]. In attesa che indagini dirette sulla struttura materiale della torre confermino o smentiscano le cronache scritte più attendibili, possiamo continuare a supporre che l’edificazione del castello a partire dal 1374 sia avvenuta su resti precedenti, tali comunque da far considerare il luogo ancora “il più forte della città”.
L'utilizzo carrarese
Il castello è sempre tenuto in buona guardia dai Carraresi per ogni evenienza e in particolare nei momenti di pericolo, come ultimo rifugio attraverso il traghetto. Le cronache raccontano del suo utilizzo diverse volte. È cruciale, ad esempio, il ruolo del castello nei giorni successivi alla presa della rocca di Strà “per malla guardia”, avvenuta il 13 novembre 1388 da parte dell’esercito milanese di Gian Galeazzo Visconti, conte di Virtù, guidato da Giacomo Dal Verme, fino alla caduta di Padova il 18 dicembre successivo. Francesco Novello da Carrara, da pochi mesi succeduto nella Signoria dopo l’abdicazione di Francesco il Vecchio, con la città assediata e in piena ribellione, è costretto a scendere a patti, concordando la resa, consegnando Padova e il suo castello al capitano Giacomo dal Verme e chiedendo per se stesso e la famiglia un salvacondotto per recarsi a Pavia a trattare col Conte di Virtù. Ottenuta la sottoscrizione degli accordi e il salvacondotto, Francesco Novello ordina il carico delle sue cose migliori su cinque barche, attraccate alla saracinesca vicino al castello, e sulle sue carrette nella corte. La partenza però è molto concitata perché, contrariamente ai patti, il 24 novembre il Carrarese assiste impotente all’ingresso nella saracinesca e poi nel castello di Facino da S. Nazaro con circa 200 fanti ben armati e poi di Ugolotto Bianzardo con circa 100 lanze, mentre 50 fanti restano di guardia alla saracinesca con un altro conestabile. “Oltre di ciò, entrato che fu Ugolotto Bianzardo in castello, subbito mandò fuora tutti li famigli del signore; e tutto quello di suo che era restato, fecce mettere a saccomanno… et messer Ugolotto dipoi andò su per le mura alla corte del signore, et anco quella fece mettere a sacco” [16]. Sentendosi tradito e in pericolo di morte, il Novello riesce comunque a far scendere dal castello nelle navi la moglie Taddea con i figli, i fratelli, i parenti e gli accompagnatori e a farli partire verso Monselice, mentre lui li segue con i carri, iniziando un’avventurosa peregrinazione che costituisce uno dei motivi d’interesse e di successo della Cronaca dei Gatari.
Il ritorno di Francesco Novello a Padova è altrettanto movimentato. Nella notte del 21 giugno 1390 alcuni uomini intraprendenti del Carrarese riescono a scalare il muro contiguo al portello di S. Mattia, vicino alla piazza dei frati Eremitani, passando attraverso alcune case vicine, e ad introdursi furtivamente nella torre, con l’intenzione di aiutare dall’interno l’apertura della porta, poi attaccata in forze da fuori. La porta viene rovesciata a terra, rompendo con “pichoni” l’ammorsatura di pietra che teneva la saracinesca. E prima dell’alba il signore è portato di peso in città tra le acclamazioni dei cittadini. Al suono delle campane a martello la gente del Conte di Virtù fugge parte “su per lo muro dela cità per la via dela corte versso il castello, lasiando i loro cavalli nela corte a vôte selle", parte “s’andava disarmando, lasando le arme su per i muri per podere meglio fuggire, parendoli senpre aver driedo chi li cazasse”. I nemici si rifugiano nel castello e il Novello fa tagliare le due strade d’accesso interne alla città da S. Cecilia e da S. Tommaso e quella esterna da S. Agostino. Poi fa demolire i merli tra la torre della porta di S. Tommaso a quella di S. Giovanni “a ciò che niunno non potesse venire su per lo muro coverto” [17].
Ma la riconquista del castello difeso da Nicolò Terzo è molto difficoltosa. Ugolotto Biancardo, al servizio dei Visconti, riesce entrare dalla via esterna e a soccorrere i seicento assediati con “molti carry di vituarie” [18]. Fatti impiccare i responsabili della mancata guardia e aumentata la sorveglianza, Francesco II non può tuttavia evitare l’uscita notturna dal castello di duecento fanti che danno fuoco al borgo di S. Tommaso. Poi insieme al Biancardo anche molte donne e bambini partono dal castello, che resta così ben fornito e in buona guardia. Con l’aiuto dell’esercito del duca Stefano III di Baviera, comprendente seimila cavalli, che inizia ad arrivare dal 27 di giugno con seicento cavalieri, il Carrarese ordina la costruzione di gatti di legname, ponti, castelli e altri artifici necessari a combattere gli occupanti del castello. Venti uomini su un gatto di legno (cioè un riparo, chiamato talora anche “testuggine”) accostato alle mura vicino alla porta di S. Giovanni, insieme a trenta tra balestrieri e bombardieri, riescono a conquistare la Porta di S. Tommaso. Dopo l’episodio della cattura di quattro soldati fuggiti dal castello, rigettati dentro col mangano, gli assediati si convincono di patteggiare la resa entro il termine di quindici giorni e fornendo adeguati ostaggi. Trascorso il termine senza l’arrivo di soccorsi da parte del conte di Virtù, il 27 agosto Francesco Novello entra finalmente nel castello col figlio Francesco III [19].
Un ospite celebre del castello padovano fu l’imperatore Roberto III duca di Baviera, eletto il 20 agosto 1400 e incoronato il 6 gennaio a Colonia. Indotto dai fiorentini a scendere in Italia, va accoglierlo a Trento anche Francesco II da Carrara, che viene nominato capitano generale di tutte le schiere imperiali. Giunto a Padova il 18 novembre 1401, l’imperatore entra dalla porta di Ognissanti con un gran seguito di cavalieri ed è accolto dal vescovo Stefano da Carrara. Smontato alla chiesa del Duomo e poi alla corte del signore, viene alloggiato nel castello con la famiglia fino al 10 dicembre, quando parte per Venezia. Ritorna a Padova il 28 febbraio 1402 e chiede al signore di alloggiare ancora al castello “per più soa sigurtà” [20] e vi resta fino al 15 aprile.
La consistenza e la forma
La consistenza materiale e la forma costruttiva del castello non si riescono certo a cogliere da questo tipo di notizie letterarie. Invece l’unica rappresentazione d’epoca carrarese giunta fino a noi tratteggia con tale vigore l’immagine della fortezza padovana che se ne comprende immediatamente la struttura. L’intenzione di Giusto de’ Menabuoi, che dipinge la cappella Conti (o del beato Luca) nella basilica del Santo nel 1382, era quella di mostrare la città di Padova ai tempi della predicazione di sant’Antonio, quindi in epoca comunale o meglio della tirannia ezzeliniana, quando la città cinta da mura era solo quella entro la prima ansa fluviale. Giusto dipinge l’apparizione di sant’Antonio al beato Luca Belludi, quando predice la liberazione di Padova dal dominio di Ezzelino. Il punto di vista è quello da sud-est, dalla basilica verso la città, quindi dietro le figure sono in evidenza le alte mura verticali con al centro la porta delle Torricelle. Il castello si affaccia all’estremità occidentale del perimetro con due torri emergenti, dipinte a scacchi bianchi e rossi fino all’altezza dei coronamenti sommitali merlati sporgenti su mensole. Sono dipinti allo stesso modo anche due “giri” di mura rettilinee, anch’esse merlate, lungo un fossato che piega ad angolo retto e separa il castello dall’interno della città, difendendo i lati est e nord. Il primo muro è affacciato direttamente a perpendicolo sull’acqua della canaletta ed è più basso di quello interno, fungendo solo da “braga” di protezione per una strada di ronda scoperta e poco più alta del piano della città. Su questo primo recinto, nascosta in basso dalla cortina muraria urbana in primo piano, s’intravede sporgere sulla fossa una struttura più alta che porta i sostegni di due ponti levatoi: quello carraio, sollevabile dalle prime due coppie di trave e catena, e quello pedonale, più isolato a nord, con una sola trave con catena. Sulle pareti dipinte dell’alto torrione che controlla questo ingresso urbano sono aperte delle bifore, unificate da una cornice ogivale e ripetute per tre livelli. Il secondo muro difensivo più interno è molto più alto di quello di fuori, ma dalla prospettiva non si può capire se raggiunge l’altezza di quello urbano duecentesco che corre verso il portello di S. Maria in Vanzo e le Torricelle. All’interno dell’intera porzione settentrionale di questo secondo muro si vede addossato un lungo edificio con al piano terra un portico forato da pilastri e archi e al piano superiore una loggia delimitata da esili colonne. Sul lato occidentale è tratteggiata la facciata piuttosto chiusa di un edificio con tetto a due falde, rivolta verso il cortile centrale. È straordinario come sia puntualmente riportato anche attorno alla torre principale, e molto vicino ad essa, l’ulteriore recinto difensivo coronato da merli, sostenuti da beccatelli a sbalzo per la difesa piombante. Sopra il tetto a falde della Torlonga, contenuto all’interno della merlatura, s’innalza un ulteriore aguzzo pinnacolo a base poligonale di colore giallognolo che sarà riportato anche dall’iconografia posteriore.
Le notizie e le immagini successive
Il recinto del castello addossato all’angolo sud occidentale delle mura comunali è rappresentato anche nelle due vedute quattrocentesche disponibili. Ma se nel “sigillo” del 1449 di Annibale Maggi sul lato orientale della cortina del castello è semplicemente indicata un’apertura ad arco e all’interno vi è una sola torre con un fastigio piramidale sopra la merlatura, nella veduta disegnata probabilmente dopo il 1460 ed attribuita a Francesco Squarcione con un dettaglio superiore è appuntata anche la torre minore di guardia all’ingresso verso il “corpo de la cità”.
Nel Libellus scritto attorno al 1446 dal medico padovano Michele Savonarola il castello è lodato per la sua ampiezza, per la bellezza e la robustezza inespugnabile. Con la consueta esagerazione, il Savonarola parla poi di un migliaio di vani tra alloggi curiali, stalle, armerie e depositi per le macchine da guerra e orti, tutti circondati dal fiume e dalle mura. Oltre che sull’inespugnabilità, soprattutto della parte centrale, il medico padovano insiste sull’amenità del sito e la magnificenza delle stanze decorate, paragonandolo al castello di Pavia [21].
In questi ambienti aveva l’obbligo di abitare il Castellano, capo del presidio militare, che era tenuto, agli ordini del Capitano della città, a custodire il castello con le armi, le munizioni e le vettovaglie a lui affidate. La carica era conferita periodicamente dal senato veneziano.
Ma nel castello potevano anche essere accolti, a causa della peste che imperversava fuori, e insieme ben custoditi per ordine del Consiglio dei X, ospiti illustri come Eugenio e Giovanni Lusignano, figli di Giacomo II ultimo re di Cipro [22].
Nel secolo XVI Padova viene difesa dal nuovo fronte bastionato. L’iniziativa di costruire un nuovo castello di presidio tondo nella parte più orientale della città non è portata a compimento e il vecchio castello perde progressivamente la funzione di luogo forte, riducendosi alla condizione di semplice deposito di munizioni.
Già all’inizio del Seicento le incombenze del castellano sono trasferite a un “monizioniere”. Nella descrizione del “castello fortissimo per batteria da mano, e di fabrica bene intesa” il Portenari riporta il testo della lapide (in due parti) fatta scolpire dal custode Sebastiano Galvano e fissata nel 1618 nella parete occidentale della stanza al secondo piano della torre di fronte all’ingresso, per ricordare le nefandezze compiute nel carcere di Ezzelino. Forse con i lavori di apertura di finestre nel 1846, la lastra con l’iscrizione è stata spostata nella parete meridionale, senza la parte inferiore con la dedica e la data [23].
Nel XVIII secolo la situazione del castello è ben documentata da una relazione del 1729 [24] che segnala le differenze con una descrizione risalente al 1675. Lo scopo è quello catastale di riportare la consistenza degli immobili, nonché la loro destinazione ed eventuale assegnazione. Tuttavia, qualche volta emerge anche lo stato di conservazione, come nel caso della torre minore della quale si dice che “nella sua somittà è tutta rovinosa ed in pericolo, che le alle che la circondano ad uso di torre a momenti precipitino con tottal rovina delle case contigue, e ciò per esser statta scoperta affatto l’anno scorso, ed impiegato tutto quel matteriale per riffar il coperto della seguente casa n. 1”.
Dopo la soppressione nel 1709 dei cinque provvisionati bombardieri, addetti alla custodia delle munizioni e alla manutenzione delle armi, che risiedevano nelle case a nord del cortile del castello, alla metà del Settecento il senato veneto destina il castello all’istruzione e all’alloggio delle reclute [25].
Il 21 marzo 1767, per ordine del Magistrato all’artiglieria, la torre maggiore è sgomberata dalle polveri che ancora vi rimangono per gli esercizi degli artiglieri e delle cernide, al fine di lasciarla a disposizione del Magistrato de’ Riformatori dello Studio per costruirvi una specola [26].
Della trasformazione della torre maggiore in osservatorio astronomico è incaricato l’abate Domenico Cerato, pubblico maestro d’architettura, del quale si conservano preziosi disegni di rilievo della situazione prima dei lavori e le corrispondenti tavole di progetto [27].
Le operazioni durano dieci anni, ma già nel 1771 iniziano le lezioni nella scuola di architettura, fondata con terminazione del 12 aprile, presso la casa già del Monizioniere ed ora anche abitazione del Cerato e nel 1775 anche l’abate Giuseppe Toaldo, pubblico professore di astronomia, si può stabilire nell’edificio ricostruito ad est della specola [28].
Da un rapporto del 22 novembre 1779 del comandante del castello Pier Antonio de’ Rossi, nominato nel 1776, si viene a sapere, tra l’altro, che “questo castello è ridotto alla desolazione, e può giustamente assomigliarsi ad un corpo assalito da vari malori e vicino a perire, allora quando non vi si apprestano gli opportuni rimedi. Questo castello era in malo stato fino dall’anno 1758 che fu ristaurato con grave dispendio pubblico, ma con poco vantaggio, per la venalità dei capi mistri, a’ quali era commesso il ristauro, che meriterebbe potrebbesi nominare piuttosto un abbellimento… I quartieri di riserva sono rovinosi… Li quartieri abitati sono in pessimo stato, e vicini a pericolare” [29]. Queste affermazioni generiche sono però sostanzialmente riconosciute e confermate dalla perizia del 16 gennaio 1780 dell’ingegnere Simon Vidali, colonnello de’ Dragonieri, che individua anche le cause degli ammaloramenti e propone i rimedi necessari con i relativi preventivi di spesa [30].
Un rapporto del successivo 28 febbraio 1780 dei tre provveditori alle fortezze riassume bene la situazione: “A tre fabbriche si riduce la necessità del ristauro, omettendosi la casa del nobil homo Castellano, che, per essere affatto diroccata, non potrebbe essere suscettibile di altro ristauro”! [31]
Del 28 aprile 1787 è il miglior rilievo planimetrico dell’intero castello, eseguito dal perito Alvise Giaconi [32], che annota 26 diverse destinazioni dei locali e dei luoghi del complesso attorno al Cortile Maggior.
Insieme con i rilievi dettagliati ma parziali del Cerato e con le vedute di Marino Urbani, la pianta del piano terra di Giaconi costituisce il riferimento documentale più preciso prima delle pesanti trasformazioni ottocentesche. Solo le prospettive preparatorie, i disegni a penna acquarellati a seppia o a bistro e gli acquarelli di Marino Urbani, databili ai primi anni dell’Ottocento [33], consentono di identificare in alzato l’ala nord, col fronte meridionale loggiato, e l’ala est, con la torre a guardia dell’ingresso dalla parte della città, le torrette agli angoli del recinto e quella del ponte levatoio. Infatti, restano indefinite le porzioni dell’ala sud e ovest non rilevate in prospetto o sezione verticale dal Cerato.
Con la caduta della Repubblica veneta, il Regno italico ha l’idea felice
Le incontenibili trasformazioni e aggiunte tra Otto e Novecento sono documentate nelle tavole comparative catastali del volume di Ettore Bressan [35].
L’abbandono dei locali col trasferimento della Casa di reclusione, l’incendio e il crollo della copertura dell’ala meridionale, che non sarà ricostruita fino al 2008, sono tappe della desolante cronaca degli ultimi decenni.
[1] Saggio pubblicato nel volume: “I luoghi dei Carraresi”, a cura di Davide Banzato e Francesca d’Arcais, Canova Edizioni, Treviso, novembre 2006, pp. 62-71, qui riprodotto con l’autorizzazione dell’autore e dell’editore con modifiche, con l’aggiunta delle note stralciate dall’edizione a stampa e con nuove immagini. torna alla lettura
[2] L. Schiaparelli, I diplomi di Berengario I, in Fonti per la storia d’Italia, Roma 1903, n. CI, 264-266, ante dicembre 915. torna alla lettura
[3] A. Gloria, Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l’undecimo, Venezia 1877, vol. I, d. 39, 48, maggio 950. Donazione di una terra kasalina, posta in città, “justa la Calcaria, non longe de castro patavino. torna alla lettura
[4] Ivi, d. 40, 50, giugno 950. Donazione di una “terra casalina, infra civem Patavensis, inter ambi castelli, non longe de Conkariola”. Il castello del duomo è citato esplicitamente in un diploma di Ottone I del febbraio 952, insieme a quelli della città di Padova e di Roncaiette: “de castro de Domo, etiam de castro Padensi et de castro qui dicitur Runcholauteri”, che conferma una donazione dell’ottobre 1031 a favore della “ecclesia sancte Marie virginis, in loco civitate patavensis et infra castrum domo”. Ivi, d. 123, 128. torna alla lettura
[5] Ivi, d. 185, 21. Nominata poi anche in un documento del 21 agosto 1102, in P. Sambin, “Nuovi documenti padovani dei secoli XI e XII”, Venezia 1955, d. 2, 2. torna alla lettura
[6] R.I.S., t. VIII, p. I, a cura di A. Bonardi, Città di Castello 1904, p. 315. torna alla lettura
[7] Rolandini Patavini Cronica circa facta et factis Marchie Trivixane, a cura di A. Bonardi, R.I.S., t. VIII, p. I, Città di Castello 1906-8, p. 77: “Hoc eodem anno, mense augusti, inceptum est castrum, quod Ecelinus fecit in Padua fieri circa ecclesiam sancti Tomasii, ipsa ecclesia circumdata et clausa in castro”. torna alla lettura
[8] Ivi, ma nella traduzione di F. Forese per la Fondazione Lorenzo Valla e Arnoldo Mondadori Editore: Rolandino, Vita e morte di Ezzelino da Romano, 2004, p. 239-240. torna alla lettura
[9] P. Gerardo, Vita et Gesti d’Ezzelino terzo de Romano, de l’origine al fine di sua famiglia, sotto la cui tirannide mancarono di morte violenta più di XII millia Padovani, Venezia 1543, c. 60. torna alla lettura
[10] A. Settia, “Ecclesiam incastellare”. Chiese e castelli della diocesi di Padova in alcune recenti pubblicazioni, in Contributi alla bibliografia storica della chiesa padovana 3-4 (1978-79), Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana, XII, Padova 1981, p. 56-57. torna alla lettura
[11] S. Tuzzato, Il Castello di Padova fino ai Carraresi e le nuove ricerche (1994-2004), in I Luoghi dei Carraresi, a cura di Davide Banzato e Francesca d’Arcais, Canova Edizioni, Treviso, novembre 2006, pp. 72-79. torna alla lettura
[12] G. e B. Gatari, Cronaca carrarese, a cura di A. Medin e G. Tolomei, R.I.S., t. XVII, P. I, Vol. I, Città di Castello, 1931, p. 137. torna alla lettura
[13] La data del 9 maggio 1374 (e non quella del 29 marzo della versione muratoriana della cronaca di Galeazzo, né quella del 1375 della cronaca di Andrea) è confermata dai Cortusii, Additamentum secundum ad chronicon, in L. A. Muratori, R.I.S., XII, col. 984. torna alla lettura
[14] A. Gatari, Chronicon patavinum italica lingua conscriptum ab anno 1301 usque ad annum 1406 auctore Andreae De Gataris nunc primum prodit ex manuscripto codice Bibliothecae Extensis. In L. A. Muratori, R.I.S., XVII, Milano 1730, p. 211. torna alla lettura
[15] Non può più essere tenuta in considerazione la testimonianza di J. Salomonio (in Urbis patavinae inscriptiones sacrae et prophanae, Padova, 1701, p. 544), che afferma essere ancora visibili nel 1701 le insegne gentilizie di Ezzelino da Romano, scolpite nel marmo e inserite sulla parete orientale della torre. E' stato infatti accertato, e confermato di recente da P. Dal Zotto, in Luigi il Grande, re d’Ungheria, nel castello carrarese, in Padova e il suo Territorio n. 138, aprile 2009, p. 22, che “nel bassorilievo in pietra di Nanto, ormai molto rovinato nella parte dello struzzo, conservato nel Lapidario del Museo Civico di Padova” e proveniente dalla torre del castello (inv. 352), è da riconoscere il cimiero di Ludovico (Luigi) d’Angiò. Le stesse insegne sono del resto state di recente ritrovate in una sala affrescata del castello. torna alla lettura
[16] G. e B. Gatari, Cronaca, cit. p. 335, versione di Andrea Gatari. torna alla lettura
[17] Ivi, p. 419-420. torna alla lettura
[18] Ivi, p. 425. torna alla lettura
[19] Ivi, p. 431. torna alla lettura
[20] Ivi, p. 477. torna alla lettura
[21] M. Savonarola, Libellus de magnificis ornamentis regie civitatis Padue, a cura di A. Segarizzi, R.I.S., Città di Castello, 1902, p. 50-51. torna alla lettura
[22] G. Lorenzoni, Il Castello di Padova e le sue condizioni verso la fine del secolo decimottavo, Padova 1896, p. 20. torna alla lettura
[23] A. Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1623, p. 87. Il Portenari scrive negli stessi anni nei quali è realizzata la lapide. Tuttavia Ettore Bressan ha raccolto la testimonianza di don Guido Beltrame, secondo il quale la data sarebbe il 1613: E. Bressan, Il castello di Padova, Treviso 1986, p. 26. torna alla lettura
[24] Nuovo Catasto e distinta descritione di tutte le case…nella città di Padova, B.C.P. 393. Utilizzata da G. G. Lorenzoni, Il Castello…, cit. p. 6 e 10 e trascritta e riprodotta da E. Bressan, Il castello…, cit. p. 57-61 e137-153. torna alla lettura
[25] G. Lorenzoni, Il Castello…, cit. p. 21. torna alla lettura
[26] Ivi, p. 19. torna alla lettura
[27] Riprodotti in E. Bressan, Il castello…, cit. p. 69-84. torna alla lettura
[28] G. Lorenzoni, Il Castello…, cit. p. 23. torna alla lettura
[29] Ivi, p. 26. torna alla lettura
[30] Ivi, p. 27. torna alla lettura
[31] Ivi, p. 28. torna alla lettura
[32] A.S.V., Miscellanea Mappe, 338. In E. Bressan, Il castello…, cit. p. 110. torna alla lettura
[33] Una Veduta della Specula alla parte di Saracinesca, disegno a penna acquarellato a bistro è ripresa da sud. Invece un disegno preparatorio a penna, due disegni a penna acquarellati, a seppia e a bistro, e un acquarello, tutti col medesimo punto di vista per l’Esterno del Castello di Ezzelino in Padova, e altrettanti per l’Interno del fu Castello ora casa di Reclusione, costituiscono nel complesso delle vedute da due soli punti di vista. Si veda il catalogo a cura di L. Grossato, Marino Urbani (1764-1853) Padova nel primo ‘800. Disegni e acquarelli, Padova, 1971, p. 44-60. torna alla lettura
[34] G. Lorenzoni, Il Castello…, cit., p. 29. torna alla lettura
[35] E. Bressan, Il castello…, cit. p. 115, 116, 120,124, 125. torna alla lettura