da "Padova e la sua provincia", anno XXIV, Luglio 1978
Il pubblico Macello
nell'area di San Massimo
Il vecchio Macello di Padova, che sostituì quello ottocentesco di Giuseppe Jappelli e che rimase in funzione fino alla fine del 1975, non trova spazio, neppur modesto, nelle numerose opere di storia dell'urbanistica cittadina: ben più fortunata attenzione per il Foro Boario, se non altro per la sua localizzazione in Prato della Valle, sul lato sud della piazza.
Il reperimento di una scarna, ma essenziale, documentazione, ci permette di dare il giusto risalto ad un’opera architettonica che sembra però avviarsi, per l'attuale stato di degrado e di abbandono, ad una fine immeritata (1).
Una datazione di massima desunta dalla cartografia (2), confortata dalla analisi del complesso dai vari punti di vista - tipologico, strutturale e uso dei materiali che, a più voci, collocava il macello nella Padova inizio del secolo, con le grandi iniziative urbane promosse dall'Amministrazione comunale sorretta dai voti dei partiti popolari, quali il cavalcavia, il rettifilo per la stazione, il ponte sul Piovego, viene confermata dai dati ora acquisiti (3).
Il progetto viene redatto nel 1904 dall'architetto Alessandro Peretti (4), ingegnere capo dell'Ufficio dei lavori Pubblici, contemporaneamente quindi alle operazioni prima citate, ma prima della costruzione del Foro Boario. I lavori vengono appaltati dalla impresa Enrico Levi e C. di Firenze e posti in esecuzione dal 1906 al 1907, l'inaugurazione avviene nel settembre dell'anno successivo e i costi complessivi ammontano a 430.000 lire. Il dimensionamento del complesso fa riferimento agli 80.000 abitanti del comune, la scelta localizzativa non risponde a pieno a tutti i criteri della tecnica urbanistica dell'epoca, quali la collocazione del manufatto in periferia e a valle del centro abitato, prossimo alla strada pubblica, alla ferrovia e al mercato del bestiame, con buone possibilità di approvvigionamento d'acqua e di smaltimento dei rifiuti, con la presenza di aree per possibilità di ampliamenti. Si ritiene, in prima analisi, che la disponibilità, almeno parziale, dell'area (ricordiamo la posizione a ridosso delle mura, quindi non ancora urbanizzata, facilmente acquisibile, se non già acquisita, dalla Amministrazione) e la situazione idraulica favorevole, dato che il ponte delle gradelle di S. Massimo è il punto più a valle di uscita delle acque interne di Padova, siano i due fattori principali.
Il complesso del Macello, che occupa una superficie attorno ai 17.000 mq, è compreso fra il canale di S. Massimo a nord, la cinta muraria ad est e sud e via Alvise Cornaro a ovest: esisteva però, con il medesimo toponimo, una strada perpendicolare al fronte dell'edificio - il collegamento con la circonvallazione è successivo (5) - diretta a piazzale Pontecorvo, a ridosso delle mura. Un serbatoio per l'acqua è situato sul bastione Buovo, con una capienza di 300 mc: la sua posizione in quota permette cacciate d'acqua alle canalizzazioni di scarico.
La tipologia dell'impianto fa specifico riferimento al "sistema tedesco”, con l'adozione di una unica grande sala di abbattimento e taglio, e si rifà al macello di Offenbach (1904) ove - come precisato nel Manuale dell'Architetto del Donghi - sono applicate per la prima volta le monorotaie aeree per il trasporto degli animali squartati alle celle frigorifere o alle sale di carico e vendita, che vedremo usate anche dal Peretti (6). L'ingresso, sul fronte ovest, è costituito da una tettoia, adibita alla prima visita del bestiame, che unisce due corpi di fabbrica: a destra l'abitazione del direttore, gli uffici, la pesa, a sinistra l'abitazione del custode e i locali per le guardie daziarie e di città.
La grande sala di macellazione bovini, entrando sulla destra, che misura m. 48x25, è illuminata da finestroni e da un lucernario per tutta la lunghezza della copertura; la disposizione planimetrica adottata, scandita dalla presenza di 28 pilastri, consente anche la organizzazione a celle. Il sollevamento degli animali avviene con "paranchi differenziali fissati a carrelli trasportatori" che scorrono su apposite rotaie solidali all'armatura in ferro del coperto, i quali permettono il trasporto, su ganci scorrevoli, del bestiame squartato nei punti più opportuni. A sinistra l'altro corpo di fabbrica di dimensioni maggiori: in un edificio a T sono collocate le funzioni che necessitano di acqua calda: la lavorazione delle carni panicate, le docce, lo spogliatoio e il refettorio per il personale dell'ala ovest, le tettoie con gli stallotti di sosta per i suini e i relativi locali di macellazione nell'ala nord, la tripperia, con le vasche e i banchi di lavorazione, nell'ala est. Nei pressi di quest'ultima sono situate le due stalle di sosta, quella di dimensione minore per i suini e i "lauti", quella maggiore per i bovini; di fronte ad essa, a destra del viale principale, il macello degli ovini.
Due concimaie, una per lo stallatico, a nord-est del corpo a T, e una a due piani, per lo "svuotamento dei ventricoli", situata lungo le mura, un fabbricato a L per i servizi accessori, lavorazione del sevo e del sangue, salatura e lavorazione delle pelli, una piccola costruzione per le latrine, nei pressi della tripperia, completano il complesso. In posizione appartata, nelle vicinanze del ponte che assume il ruolo di uscita secondaria dell'intero macello, l'edificio per gli animali infetti, con la stalla d'osservazione e l'apposito macchinario, il "digestore Rastelli", atto a distruggere le carni e a recuperare grasso per uso industriale.
Una apposita area è destinata, a sinistra dell'ingresso sul fronte strada, alla costruzione delle celle frigorifere, realizzare poi in seguito. Gli stilemi adottati nel progetto ricordano il "decoro" di altri esempi coevi, il tutto impostato su criteri di dignitosa sobrietà e di funzionalità rigorosa: l'elemento comunque di maggior interesse è costituito dalla sala macello bovini, ove un essenziale, ma sapiente uso delle strutture metalliche qualifica anche esteticamente un complesso che, spenta ormai la sua funzione di “Macchina della morte”, è in ogni caso degno di essere recuperato come preziosa testimonianza di architettura paleo-industriale.
Vanno ricordate inoltre, in un'ottica di riqualificazione dell'area, la presenza, se ce ne fosse ancora bisogno, delle importanti strutture architettoniche presenti nei pressi: il bastione Buovo (o Castelvecchio) con il ponte, il bastione Castelnuovo con la sua “porterucola”, la stessa cinta muraria cinquecentesca, offrono, anche perché già di proprietà comunale, una possibilità di riprogettazione unitaria. Il ponte delle Gradelle merita un accenno ulteriore, per focalizzare il suo valore storico, dato che attraversa - come è emerso da recenti importanti contributi relativi ai problemi della genesi urbana di Padova - l'antico alveo del Brenta, ora canale S. Massimo e Roncaiette (7). Il manufatto, a tre archi, sormontato da una piccola costruzione - ora sede dell'associazione Comitato Mura di Padova - è attualmente oggetto di studio e di operazioni di rilievo e sono state identificate alcune trasformazioni (8): quale primo contributo presentiamo un disegno della prima metà del XVIII secolo che rappresenta lo stato di fatto a quella data (9) e, come documento più significativo tra quelli reperiti, una relazione di Giovanni Poleni relativa alle “Gradelle” (10).
Ill.mo ed Ecc.mo Sig. Capitano e v. Podestà
Quando per Sovrano Comando del Serenissimo Principe si fabbricavano circa l'anno 1520 le grandiose nuove mura di questa Città, fra le Porte di Pontecorvo e del Portello si dovette attraversare il Fiume Bacchiglione con un Ponte di tre Archi, su cui furono, come sul piano, le Mura continuate. Ma il Ponte, fatto perché la Città restasse chiusa, era una Fabbricha, che negli Archi suoi rendeva la Città aperta. Fu dunque di necessità il fornire quegli Archi di Saracinesche di ferro, volgarmente qui chiamate Gradelle. Delle quali gli usi
dovevano essere tre: e furono anche per assai tempo. L'uno era il poterle variamente alzare ed abbassare ne' loro Gargami giusta i vari bisogni; l'altro era, ch'essendo esse tenute basse sino al pelo dell'acqua, serrati così fossero gli Archi; il terzo era, che con tutta la chiusura degli Archi l'acqua scorreva liberamente.
Ma da alquanto tempo al dì d’oggi tutti e tre quegli utili usi sono quasi interamente perduti. Consumatisi essendo molti ferri dalle perpetue corrosioni della ruggine, ed altri essendosi piegati persino ne' loro telari, ed intorti per li sforzi dell'acqua ivi ritenuta da stranie materie, ove ritrova otturarti gli occhi tra ferro e ferro: né possono più desse Gradelle o alzarsi o abbassarsi; e mancano pure i mezzi per farlo, mancando le scale, i cavalletti, e le leve. Ecco la perdita del primo uso, e nel medesimo tempo degli altri due. Perchè le Gradelle se restano alte, si perde la chiusura; se troppo basse ed immerse nell'acqua, il moto di questa da tanti galleggianti ed altre materie, che dalle Gradelle restano trattenute, viene interrotto, ed in parte ancora impedito.
Che sì utile, e nel suo genere grande, opera sia ristaurata e restituita alla forma sua primiera (a risserva che si può scemare un poco l'altezza de' ferri) e sia ridotta in istato di servire a que' fini, per cui fu costrutta provvidamente. sembra da quanto si è scritto sin quà divenire assai chiaro. Ma alle volte anche le cose assai chiare meglio si scorgono se si ponga a profitto il lume, che può essere dalle riflessioni comunicato.
E nel nostro caso ben è da riflettersi a' disordini, che possono nascere quando alcuna Gradella lasci libero spazio tra la sua estremità inferiore e il pelo dell'acqua; come una
lo lasciava, benché l'acqua alta fosse, e lo lascierebbe tutt'ora, se Ecc.za V.ra non avesse voluto, che a forza col battere e ribattere i ferri fosse abbassata. Qualunque volta col molto scemarsi delle acque rimanga libero quel spazio, rimane adito per le picciole barche (ivi non essendo violente le basse acque) e di più essendovi una Marezana, rimane, dico, adito anche pe’ Contrabandi non senza il danno del pubblico patrimonio. Ed i Rei possono un'entrata ed una uscita a loro piacer ritrovarsi.
Se poi le Gradelle non possono alzarsi, e restino immerse nelle acque delle Piene del Fiume, in tal caso i legni vi si fermano, i virgulti vi si avviticgiano e le altre materie
strascinate dalla corrente vi si ammassano: così l'acqua già entrata per le parti superiori nella Città, non potendo per Ie parti inferiori scorrere liberamente, cresce di corpo; e più di
quel, che fatto avrebbe, s'innalza. Quindi la crescita delle innondazioni prodotte da quelle acque; le quali innondazioni tanto più dannose riescono, quanto col calar del Fiume non
calano tutti i loro danni: mentre restano le acque ne' bassi luoghi delle Case, ne' quali recano non lievi pregiudicj.
Inoltre degli inconvenienti delle acque in quella parte ne risentono il disordine anche le altre acque superiori. Le acque, scorrenti per entro questa Città, sono state distribuite e dirette con tanto artificio di combinazione tra di esse, che, quasi dissi, risentirsi dalle parti delle medesime i danni, a similitudine del sangue, di cui il moto dai difetti di una vena particolare s'altera e si perturba nelle altre vene, che hanno comunicazione con quella.
Queste esposizioni de' danni, che la materia proposta abbracciano tutta, non sono che una storica verità. Per ben compirla aggiunger debbo, essere li danni suddetti dall'Ecc.za V.ra (cui nella fatta Visita io servij) stati considerati su la faccia del luogo, dove Ella stessa volle osservare, e d'ogni particolarità spettante al Pubblico ed al Privato interesse prendere esatta informazione; e l'ottimo rimedio della ristaurazione propose. Per tanto ora l’umile ubbidienza mia altro non ha prestato, se non che quelli registrare in iscritto: e ciò con ottima sorte; quindi provenendo a me l’onore di soscrivermi quale sono con profondo ossequio.
Dell'Ecc.za V.ra
Padova. 15 Agosto 1749.
Giovanni Poleni
da "Padova e la sua provincia", anno XXIV, Luglio 1978
scarica l'estratto della rivista in pdf (4.8 MB)
NOTE
(1) I dati principali e il materiale iconografico sono tratti da: Il nuovo macello pubblico di Padova, in “L'Edilizia Moderna”, XVII, V, maggio 1908, pp. 34-36. Vedi anche Una
visita al nuovo Macello nell’imminenza dell’apertura, in “La Provincia”,1-2 settembre 1908.
(2] Gli edifici appaiono, seppure sommariamente, nella pianta di Padova del 1906 di L. Salce, edizioni Drucker.
(3) Per le vicende urbanistiche padovane a cavallo del secolo vedi il saggio di M. Universo, L'architettura della “Padova nova”, in aa.vv., Padova. Cast e Palazzi, Vicenza
1977, pp. 271-295.
(4) Architetto veronese, 1862-1919, protagonista, in qualità di tecnico comunale, delle maggiori operazioni urbanistiche dell'epoca: rettifilo per la Stazione, ponte sul Piovego, Macello, Foro Boario, Palazzo delle Poste. Vedi nota precedente e G. Toffanin J., Cent'anni in una città, Cittadella 1973, p. 190.
(5) Vedi nota 2.
D. Donghi, Manuale dell'Architetto, Torino 1925, vol. II, parte prima, pp. 238-242.
L'esempio padovano è illustrato alle pp. 215 e 216. Per una trattazione completa dell'argomento, ibidem, pp. 97-245 e P. Carbonara, Architettura pratica, vol. V, II, Torino 1962, pp. 473-568.
(7) L. Bosio, Problemi topografici di Padova preromana, in Padova preromana. Catalogo della Mostra, Padova 1976, pp. 3-9.
(8) L'arco centrale è stato rialzato - si legge chiaramente, sul manufatto, il taglio dell'arcata primitiva - e così il piano del ponte, incurvato a dorso d'asino. Si ha poi notizia, dalla lapide posta sul fabbricato, della riattivazione, nel 1781, della navigazione nel canale “attraverso il quale si apriva ai navigli I'accesso alla città” (l'iscrizione è in latino).
(9) Il disegno, acquarellato, cm.73x50, è di G. B. Savio. Archivio di Stato di Venezia, Archivio privato Poleni, reg. 4 (T. III). c. 206. Autorizzazione ministeriale n. 1.165 del
10.2-1978.
(10) Ibidem, cc.211 e 212.