Adriano Verdi
Il castello carrarese [1]
Le fasi costruttive
Dopo che Berengario I nel 915 concede al vescovo di Padova Sibicone di provvedere alla difesa della sua chiesa, ovunque fosse necessario, con l’edificazione di un castello con mura, merli, fossati, bertesche e celate [2], già nel 950 le fonti scritte testimoniano della presenza di un castro patavino [3] e di un secondo castello, identificabile con quello del duomo [4]. Nel 1062 un documento nomina la Turlonga [5], posta alla biforcazione dei corsi d’acqua che circondano la città. Nel Liber Regiminum Padue all’anno 1242, dopo le prodezze distruttive di Ezzelino III da Romano (in marzo l’incendio e l’occupazione di Montagnana; in settembre la devastazione di Este, l’incendio del borgo di Baone e la distruzione della torre di Cinto), è annotato l’inizio del castello di S. Tommaso a Padova [6]. Con più precisione Rolandino scrive nella sua Cronica che “in quello stesso anno [1242], nel mese di agosto, fu iniziato il castello, che Ezzelino fece fare a Padova attorno alla chiesa di S. Tommaso, circondando e chiudendo la chiesa nel castello” [7]. Tuttavia i padovani, almeno “quelli che desiderano equità e giustizia”, non lo intendono come fatto positivo, temendo che il castello diventi non uno strumento di protezione ma un ulteriore dispositivo di oppressione e di terrore. Ma vi sono anche quelli che “si gloriavano del male che andava crescendo e provavano un’indicibile esultanza, accecati tanto da un’ambizione insaziabile ed iniqua quanto dal timore del tiranno”. E qui Rolandino, per esemplificare, si sofferma a raccontare di “un tale che chiese con insistenza ad Ezzelino la grazia di fargli progettare non la disposizione delle camere del palazzo del castello, ma del carcere e della stanza delle torture. Accogliendo la grazia concessagli con animo lieto, costui sollecitò l’acume di tutto il suo zelo e di tutto il suo ingegno e come artefice sovrintese agli operai zelante, assiduo e digiuno per più giorni, per concludere con successo quel che aveva concepito nell’animo. Ma si rallegrino le anime dei morti nel castello! Poiché colui che tanto spesso era entrato di sua spontanea volontà nel carcere, quando veniva costruito, osservando attentamente, anzi ordinando, che nel carcere non rilucesse alcuno spiraglio di luce – volendo fare un luogo tenebroso, pieno di porcherie e immondizie, triste, tartareo, orribile e mortale – proprio quell’artefice stesso, in seguito preso e rinchiuso per ordine di Ezzelino, oppresso da fame, sete, vermi e fetore e dalla mancanza d’aria, come un lupo che ulula, perì miserevolmente e venne meno nel luogo così infernale che aveva preparato. Egli, a mio avviso, fu simile a quel buffone che, desiderando compiacere il suo re e signore, che gli chiedeva una tortura di genere inusitato, fece fabbricare un toro di bronzo, in cui escogitò di chiudere i colpevoli di modo che, posto intorno e acceso il fuoco, il re sentisse il toro miserevolmente muggire. Ma il re, in ciò veramente giusto e degno di memoria, volle che il buffone, ossia l’artefice, fosse il primo che in tale modo muggisse in tale bestia. Così chi macchinava per gli altri una cosa peggiore della morte, patì a sua volta una cosa peggiore della morte. E così è chiaro che era giusto per l’artefice tanto del carcere quanto del toro non soltanto contemplare ciò che aveva davanti agli occhi. D’altra parte la loro prudenza avrebbe dovuto considerare attentamente come sarebbero andate a finire le cose” [8]. Rolandino non nomina il progettista del carcere, che secondo Pietro Gerardo – fonte cinquecentesca di dubbia attendibilità – sarebbe stato l’architetto milanese Zilio[9].
Secondo la prudente analisi dei testi condotta da Aldo Settia, non è accertata la coincidenza del sito della Torlonga col luogo del castello fatto costruire da Ezzelino [10]. Tuttavia, se ricerche archeologiche sull’attuale torre della Specola non sono ancora state compiute, le analisi stratigrafiche condotte alla base della porta occidentale del castello [11] hanno già fornito alcune prove importanti della permanenza nello stesso sito di imponenti fortificazioni romane e di un dongione altomedievale con torre e recinto sui due lati verso città. A questa robusta struttura, senza sostituirsi ad essa, si attestano verso est e verso nord le mura di epoca comunale. Segue l’intervento ezzeliniano, del quale però sono finora confermati solo i resti della porta verso ovest.
Nel secolo successivo avvengono le trasformazioni più significative. Dovrebbero essere di epoca carrarese, infatti, alcune delle principali strutture del castello giunte fino ad oggi. Il cronista padovano Galeazzo Gatari (1344-1405) iscritto alla fraglia degli speziali con bottega nella contrada di Santa Lucia, ma anche autorevole ambasciatore e tesoriere di Francesco il Vecchio, signore di Padova, nella Cronaca carrarese trascritta dal figlio Bartolomeo, alla data del 9 maggio 1374 riporta l’edificazione del castello di Padova con queste parole: “Marti, dì 9 de mazo, col nome di l’altisimo Dio e di santo Prosdocimo, san Danielle, santo Antonio, santa Iustina, protetori di questa cità di Padoa, dita una solenne messa, fu principiato il castello dila cità di Padoa, che da san Tomaxo è apresso la tore de misser Ecelin; ala quale edificacione fu a farllo il provido omo maestro Nicollò da la Belanda, ingegnero dil prefato signore, e in questo dì promesse di darllo conpido d’ogni raxone fortificò perfino a 4 anni prosimi futuri, non gli mancando le cose oportune per quello” [12]. La torre di Ezzelino che viene citata è forse quella maggiore, cioè la vecchia Torlonga probabilmente ristrutturata.
Ma la versione della cronaca trascritta e rivista successivamente dall’altro figlio di Galeazzo, Andrea Gatari, è diversa da quella del fratello in un punto cruciale, dato che attribuisce ad Ezzelino la paternità di entrambe le torri del castello: “Dubitando il signore messer Francesco da Carrara, signore di Padoa, della vita sua, et massime per li casi occorsi due volte, deliberò di assicurarsi al più che potesse; et fecce pensiero di fare un castello forte nella città di Padoa, et avuto consiglio da un valente ingegnere, nominato maestro Nicolò della Bellanda, e mostratigli più luoghi della città, ove si dovesse fare, che stesse meglio, alla fine deliberarono di farlo a S. Tommaso, et a S. Agostino, ove erano e sono le torri del perfido messer’ Eccelino da Romano, come in luogo più forte della città. E così gli dette principio nel giorno e millesimo scritto, che fu alli 9 di maggio 1375 [leggi 1374] [13]. Il quale castello fu fatto de’ beni de i cittadini di Padoa, perché così volle il signore; e secondo la condizione e qualità degli uomini erano tassati i pagamenti: cosa non solita, e molto molesta a tutta la città” [14].
Anche se Andrea Gatari, nato all’incirca all’epoca della costruzione del castello carrarese, non poteva far conto su suoi ricordi diretti, tuttavia questa testimonianza non dovrebbe essere casuale, vista anche la tradizione successiva di denominare “Zilie’ le due torri, dal nome dell’architetto del carcere ezzeliniano. Sarebbe, dunque, da attribuire ad Ezzelino anche la costruzione di una seconda torre, che non può essere che quella sul lato orientale, di guardia alla porta verso la città, poiché quella torre, ancor oggi superstite, contiene decorazioni d’epoca carrarese ed era quindi quella esistente al tempo dei Gatari [15]. In attesa che indagini dirette sulla struttura materiale della torre confermino o smentiscano le cronache scritte più attendibili, possiamo continuare a supporre che l’edificazione del castello a partire dal 1374 sia avvenuta su resti precedenti, tali comunque da far considerare il luogo ancora “il più forte della città”.
L'utilizzo carrarese
Il castello è sempre tenuto in buona guardia dai Carraresi per ogni evenienza e in particolare nei momenti di pericolo, come ultimo rifugio attraverso il traghetto. Le cronache raccontano del suo utilizzo diverse volte. È cruciale, ad esempio, il ruolo del castello nei giorni successivi alla presa della rocca di Strà “per malla guardia”, avvenuta il 13 novembre 1388 da parte dell’esercito milanese di Gian Galeazzo Visconti, conte di Virtù, guidato da Giacomo Dal Verme, fino alla caduta di Padova il 18 dicembre successivo. Francesco Novello da Carrara, da pochi mesi succeduto nella Signoria dopo l’abdicazione di Francesco il Vecchio, con la città assediata e in piena ribellione, è costretto a scendere a patti, concordando la resa, consegnando Padova e il suo castello al capitano Giacomo dal Verme e chiedendo per se stesso e la famiglia un salvacondotto per recarsi a Pavia a trattare col Conte di Virtù. Ottenuta la sottoscrizione degli accordi e il salvacondotto, Francesco Novello ordina il carico delle sue cose migliori su cinque barche, attraccate alla saracinesca vicino al castello, e sulle sue carrette nella corte. La partenza però è molto concitata perché, contrariamente ai patti, il 24 novembre il Carrarese assiste impotente all’ingresso nella saracinesca e poi nel castello di Facino da S. Nazaro con circa 200 fanti ben armati e poi di Ugolotto Bianzardo con circa 100 lanze, mentre 50 fanti restano di guardia alla saracinesca con un altro conestabile. “Oltre di ciò, entrato che fu Ugolotto Bianzardo in castello, subbito mandò fuora tutti li famigli del signore; e tutto quello di suo che era restato, fecce mettere a saccomanno… et messer Ugolotto dipoi andò su per le mura alla corte del signore, et anco quella fece mettere a sacco” [16]. Sentendosi tradito e in pericolo di morte, il Novello riesce comunque a far scendere dal castello nelle navi la moglie Taddea con i figli, i fratelli, i parenti e gli accompagnatori e a farli partire verso Monselice, mentre lui li segue con i carri, iniziando un’avventurosa peregrinazione che costituisce uno dei motivi d’interesse e di successo della Cronaca dei Gatari.
Il ritorno di Francesco Novello a Padova è altrettanto movimentato. Nella notte del 21 giugno 1390 alcuni uomini intraprendenti del Carrarese riescono a scalare il muro contiguo al portello di S. Mattia, vicino alla piazza dei frati Eremitani, passando attraverso alcune case vicine, e ad introdursi furtivamente nella torre, con l’intenzione di aiutare dall’interno l’apertura della porta, poi attaccata in forze da fuori. La porta viene rovesciata a terra, rompendo con “pichoni” l’ammorsatura di pietra che teneva la saracinesca. E prima dell’alba il signore è portato di peso in città tra le acclamazioni dei cittadini. Al suono delle campane a martello la gente del Conte di Virtù fugge parte “su per lo muro dela cità per la via dela corte versso il castello, lasiando i loro cavalli nela corte a vôte selle", parte “s’andava disarmando, lasando le arme su per i muri per podere meglio fuggire, parendoli senpre aver driedo chi li cazasse”. I nemici si rifugiano nel castello e il Novello fa tagliare le due strade d’accesso interne alla città da S. Cecilia e da S. Tommaso e quella esterna da S. Agostino. Poi fa demolire i merli tra la torre della porta di S. Tommaso a quella di S. Giovanni “a ciò che niunno non potesse venire su per lo muro coverto” [17].
Ma la riconquista del castello difeso da Nicolò Terzo è molto difficoltosa. Ugolotto Biancardo, al servizio dei Visconti, riesce entrare dalla via esterna e a soccorrere i seicento assediati con “molti carry di vituarie” [18]. Fatti impiccare i responsabili della mancata guardia e aumentata la sorveglianza, Francesco II non può tuttavia evitare l’uscita notturna dal castello di duecento fanti che danno fuoco al borgo di S. Tommaso. Poi insieme al Biancardo anche molte donne e bambini partono dal castello, che resta così ben fornito e in buona guardia. Con l’aiuto dell’esercito del duca Stefano III di Baviera, comprendente seimila cavalli, che inizia ad arrivare dal 27 di giugno con seicento cavalieri, il Carrarese ordina la costruzione di gatti di legname, ponti, castelli e altri artifici necessari a combattere gli occupanti del castello. Venti uomini su un gatto di legno (cioè un riparo, chiamato talora anche “testuggine”) accostato alle mura vicino alla porta di S. Giovanni, insieme a trenta tra balestrieri e bombardieri, riescono a conquistare la Porta di S. Tommaso. Dopo l’episodio della cattura di quattro soldati fuggiti dal castello, rigettati dentro col mangano, gli assediati si convincono di patteggiare la resa entro il termine di quindici giorni e fornendo adeguati ostaggi. Trascorso il termine senza l’arrivo di soccorsi da parte del conte di Virtù, il 27 agosto Francesco Novello entra finalmente nel castello col figlio Francesco III [19].
Un ospite celebre del castello padovano fu l’imperatore Roberto III duca di Baviera, eletto il 20 agosto 1400 e incoronato il 6 gennaio a Colonia. Indotto dai fiorentini a scendere in Italia, va accoglierlo a Trento anche Francesco II da Carrara, che viene nominato capitano generale di tutte le schiere imperiali. Giunto a Padova il 18 novembre 1401, l’imperatore entra dalla porta di Ognissanti con un gran seguito di cavalieri ed è accolto dal vescovo Stefano da Carrara. Smontato alla chiesa del Duomo e poi alla corte del signore, viene alloggiato nel castello con la famiglia fino al 10 dicembre, quando parte per Venezia. Ritorna a Padova il 28 febbraio 1402 e chiede al signore di alloggiare ancora al castello “per più soa sigurtà” [20] e vi resta fino al 15 aprile.
La consistenza e la forma
La consistenza materiale e la forma costruttiva del castello non si riescono certo a cogliere da questo tipo di notizie letterarie. Invece l’unica rappresentazione d’epoca carrarese giunta fino a noi tratteggia con tale vigore l’immagine della fortezza padovana che se ne comprende immediatamente la struttura. L’intenzione di Giusto de’ Menabuoi, che dipinge la cappella Conti (o del beato Luca) nella basilica del Santo nel 1382, era quella di mostrare la città di Padova ai tempi della predicazione di sant’Antonio, quindi in epoca comunale o meglio della tirannia ezzeliniana, quando la città cinta da mura era solo quella entro la prima ansa fluviale. Giusto dipinge l’apparizione di sant’Antonio al beato Luca Belludi, quando predice la liberazione di Padova dal dominio di Ezzelino. Il punto di vista è quello da sud-est, dalla basilica verso la città, quindi dietro le figure sono in evidenza le alte mura verticali con al centro la porta delle Torricelle. Il castello si affaccia all’estremità occidentale del perimetro con due torri emergenti, dipinte a scacchi bianchi e rossi fino all’altezza dei coronamenti sommitali merlati sporgenti su mensole. Sono dipinti allo stesso modo anche due “giri” di mura rettilinee, anch’esse merlate, lungo un fossato che piega ad angolo retto e separa il castello dall’interno della città, difendendo i lati est e nord. Il primo muro è affacciato direttamente a perpendicolo sull’acqua della canaletta ed è più basso di quello interno, fungendo solo da “braga” di protezione per una strada di ronda scoperta e poco più alta del piano della città. Su questo primo recinto, nascosta in basso dalla cortina muraria urbana in primo piano, s’intravede sporgere sulla fossa una struttura più alta che porta i sostegni di due ponti levatoi: quello carraio, sollevabile dalle prime due coppie di trave e catena, e quello pedonale, più isolato a nord, con una sola trave con catena. Sulle pareti dipinte dell’alto torrione che controlla questo ingresso urbano sono aperte delle bifore, unificate da una cornice ogivale e ripetute per tre livelli. Il secondo muro difensivo più interno è molto più alto di quello di fuori, ma dalla prospettiva non si può capire se raggiunge l’altezza di quello urbano duecentesco che corre verso il portello di S. Maria in Vanzo e le Torricelle. All’interno dell’intera porzione settentrionale di questo secondo muro si vede addossato un lungo edificio con al piano terra un portico forato da pilastri e archi e al piano superiore una loggia delimitata da esili colonne. Sul lato occidentale è tratteggiata la facciata piuttosto chiusa di un edificio con tetto a due falde, rivolta verso il cortile centrale. È straordinario come sia puntualmente riportato anche attorno alla torre principale, e molto vicino ad essa, l’ulteriore recinto difensivo coronato da merli, sostenuti da beccatelli a sbalzo per la difesa piombante. Sopra il tetto a falde della Torlonga, contenuto all’interno della merlatura, s’innalza un ulteriore aguzzo pinnacolo a base poligonale di colore giallognolo che sarà riportato anche dall’iconografia posteriore.
Le notizie e le immagini successive
Il recinto del castello addossato all’angolo sud occidentale delle mura comunali è rappresentato anche nelle due vedute quattrocentesche disponibili. Ma se nel “sigillo” del 1449 di Annibale Maggi sul lato orientale della cortina del castello è semplicemente indicata un’apertura ad arco e all’interno vi è una sola torre con un fastigio piramidale sopra la merlatura, nella veduta disegnata probabilmente dopo il 1460 ed attribuita a Francesco Squarcione con un dettaglio superiore è appuntata anche la torre minore di guardia all’ingresso verso il “corpo de la cità”.
Nel Libellus scritto attorno al 1446 dal medico padovano Michele Savonarola il castello è lodato per la sua ampiezza, per la bellezza e la robustezza inespugnabile. Con la consueta esagerazione, il Savonarola parla poi di un migliaio di vani tra alloggi curiali, stalle, armerie e depositi per le macchine da guerra e orti, tutti circondati dal fiume e dalle mura. Oltre che sull’inespugnabilità, soprattutto della parte centrale, il medico padovano insiste sull’amenità del sito e la magnificenza delle stanze decorate, paragonandolo al castello di Pavia [21].
In questi ambienti aveva l’obbligo di abitare il Castellano, capo del presidio militare, che era tenuto, agli ordini del Capitano della città, a custodire il castello con le armi, le munizioni e le vettovaglie a lui affidate. La carica era conferita periodicamente dal senato veneziano.
Ma nel castello potevano anche essere accolti, a causa della peste che imperversava fuori, e insieme ben custoditi per ordine del Consiglio dei X, ospiti illustri come Eugenio e Giovanni Lusignano, figli di Giacomo II ultimo re di Cipro [22].
Nel secolo XVI Padova viene difesa dal nuovo fronte bastionato. L’iniziativa di costruire un nuovo castello di presidio tondo nella parte più orientale della città non è portata a compimento e il vecchio castello perde progressivamente la funzione di luogo forte, riducendosi alla condizione di semplice deposito di munizioni.
Già all’inizio del Seicento le incombenze del castellano sono trasferite a un “monizioniere”. Nella descrizione del “castello fortissimo per batteria da mano, e di fabrica bene intesa” il Portenari riporta il testo della lapide (in due parti) fatta scolpire dal custode Sebastiano Galvano e fissata nel 1618 nella parete occidentale della stanza al secondo piano della torre di fronte all’ingresso, per ricordare le nefandezze compiute nel carcere di Ezzelino. Forse con i lavori di apertura di finestre nel 1846, la lastra con l’iscrizione è stata spostata nella parete meridionale, senza la parte inferiore con la dedica e la data [23].
Nel XVIII secolo la situazione del castello è ben documentata da una relazione del 1729 [24] che segnala le differenze con una descrizione risalente al 1675. Lo scopo è quello catastale di riportare la consistenza degli immobili, nonché la loro destinazione ed eventuale assegnazione. Tuttavia, qualche volta emerge anche lo stato di conservazione, come nel caso della torre minore della quale si dice che “nella sua somittà è tutta rovinosa ed in pericolo, che le alle che la circondano ad uso di torre a momenti precipitino con tottal rovina delle case contigue, e ciò per esser statta scoperta affatto l’anno scorso, ed impiegato tutto quel matteriale per riffar il coperto della seguente casa n. 1”.
Dopo la soppressione nel 1709 dei cinque provvisionati bombardieri, addetti alla custodia delle munizioni e alla manutenzione delle armi, che risiedevano nelle case a nord del cortile del castello, alla metà del Settecento il senato veneto destina il castello all’istruzione e all’alloggio delle reclute [25].
Il 21 marzo 1767, per ordine del Magistrato all’artiglieria, la torre maggiore è sgomberata dalle polveri che ancora vi rimangono per gli esercizi degli artiglieri e delle cernide, al fine di lasciarla a disposizione del Magistrato de’ Riformatori dello Studio per costruirvi una specola [26].
Della trasformazione della torre maggiore in osservatorio astronomico è incaricato l’abate Domenico Cerato, pubblico maestro d’architettura, del quale si conservano preziosi disegni di rilievo della situazione prima dei lavori e le corrispondenti tavole di progetto [27].
Le operazioni durano dieci anni, ma già nel 1771 iniziano le lezioni nella scuola di architettura, fondata con terminazione del 12 aprile, presso la casa già del Monizioniere ed ora anche abitazione del Cerato e nel 1775 anche l’abate Giuseppe Toaldo, pubblico professore di astronomia, si può stabilire nell’edificio ricostruito ad est della specola [28].
Da un rapporto del 22 novembre 1779 del comandante del castello Pier Antonio de’ Rossi, nominato nel 1776, si viene a sapere, tra l’altro, che “questo castello è ridotto alla desolazione, e può giustamente assomigliarsi ad un corpo assalito da vari malori e vicino a perire, allora quando non vi si apprestano gli opportuni rimedi. Questo castello era in malo stato fino dall’anno 1758 che fu ristaurato con grave dispendio pubblico, ma con poco vantaggio, per la venalità dei capi mistri, a’ quali era commesso il ristauro, che meriterebbe potrebbesi nominare piuttosto un abbellimento… I quartieri di riserva sono rovinosi… Li quartieri abitati sono in pessimo stato, e vicini a pericolare” [29]. Queste affermazioni generiche sono però sostanzialmente riconosciute e confermate dalla perizia del 16 gennaio 1780 dell’ingegnere Simon Vidali, colonnello de’ Dragonieri, che individua anche le cause degli ammaloramenti e propone i rimedi necessari con i relativi preventivi di spesa [30].
Un rapporto del successivo 28 febbraio 1780 dei tre provveditori alle fortezze riassume bene la situazione: “A tre fabbriche si riduce la necessità del ristauro, omettendosi la casa del nobil homo Castellano, che, per essere affatto diroccata, non potrebbe essere suscettibile di altro ristauro”! [31]
Del 28 aprile 1787 è il miglior rilievo planimetrico dell’intero castello, eseguito dal perito Alvise Giaconi [32], che annota 26 diverse destinazioni dei locali e dei luoghi del complesso attorno al Cortile Maggior.
Insieme con i rilievi dettagliati ma parziali del Cerato e con le vedute di Marino Urbani, la pianta del piano terra di Giaconi costituisce il riferimento documentale più preciso prima delle pesanti trasformazioni ottocentesche. Solo le prospettive preparatorie, i disegni a penna acquarellati a seppia o a bistro e gli acquarelli di Marino Urbani, databili ai primi anni dell’Ottocento [33], consentono di identificare in alzato l’ala nord, col fronte meridionale loggiato, e l’ala est, con la torre a guardia dell’ingresso dalla parte della città, le torrette agli angoli del recinto e quella del ponte levatoio. Infatti, restano indefinite le porzioni dell’ala sud e ovest non rilevate in prospetto o sezione verticale dal Cerato.
Con la caduta della Repubblica veneta, il Regno italico ha l’idea felice
Le incontenibili trasformazioni e aggiunte tra Otto e Novecento sono documentate nelle tavole comparative catastali del volume di Ettore Bressan [35].
L’abbandono dei locali col trasferimento della Casa di reclusione, l’incendio e il crollo della copertura dell’ala meridionale, che non sarà ricostruita fino al 2008, sono tappe della desolante cronaca degli ultimi decenni.
[1] Saggio pubblicato nel volume: “I luoghi dei Carraresi”, a cura di Davide Banzato e Francesca d’Arcais, Canova Edizioni, Treviso, novembre 2006, pp. 62-71, qui riprodotto con l’autorizzazione dell’autore e dell’editore con modifiche, con l’aggiunta delle note stralciate dall’edizione a stampa e con nuove immagini. torna alla lettura
[2] L. Schiaparelli, I diplomi di Berengario I, in Fonti per la storia d’Italia, Roma 1903, n. CI, 264-266, ante dicembre 915. torna alla lettura
[3] A. Gloria, Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l’undecimo, Venezia 1877, vol. I, d. 39, 48, maggio 950. Donazione di una terra kasalina, posta in città, “justa la Calcaria, non longe de castro patavino. torna alla lettura
[4] Ivi, d. 40, 50, giugno 950. Donazione di una “terra casalina, infra civem Patavensis, inter ambi castelli, non longe de Conkariola”. Il castello del duomo è citato esplicitamente in un diploma di Ottone I del febbraio 952, insieme a quelli della città di Padova e di Roncaiette: “de castro de Domo, etiam de castro Padensi et de castro qui dicitur Runcholauteri”, che conferma una donazione dell’ottobre 1031 a favore della “ecclesia sancte Marie virginis, in loco civitate patavensis et infra castrum domo”. Ivi, d. 123, 128. torna alla lettura
[5] Ivi, d. 185, 21. Nominata poi anche in un documento del 21 agosto 1102, in P. Sambin, “Nuovi documenti padovani dei secoli XI e XII”, Venezia 1955, d. 2, 2. torna alla lettura
[6] R.I.S., t. VIII, p. I, a cura di A. Bonardi, Città di Castello 1904, p. 315. torna alla lettura
[7] Rolandini Patavini Cronica circa facta et factis Marchie Trivixane, a cura di A. Bonardi, R.I.S., t. VIII, p. I, Città di Castello 1906-8, p. 77: “Hoc eodem anno, mense augusti, inceptum est castrum, quod Ecelinus fecit in Padua fieri circa ecclesiam sancti Tomasii, ipsa ecclesia circumdata et clausa in castro”. torna alla lettura
[8] Ivi, ma nella traduzione di F. Forese per la Fondazione Lorenzo Valla e Arnoldo Mondadori Editore: Rolandino, Vita e morte di Ezzelino da Romano, 2004, p. 239-240. torna alla lettura
[9] P. Gerardo, Vita et Gesti d’Ezzelino terzo de Romano, de l’origine al fine di sua famiglia, sotto la cui tirannide mancarono di morte violenta più di XII millia Padovani, Venezia 1543, c. 60. torna alla lettura
[10] A. Settia, “Ecclesiam incastellare”. Chiese e castelli della diocesi di Padova in alcune recenti pubblicazioni, in Contributi alla bibliografia storica della chiesa padovana 3-4 (1978-79), Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana, XII, Padova 1981, p. 56-57. torna alla lettura
[11] S. Tuzzato, Il Castello di Padova fino ai Carraresi e le nuove ricerche (1994-2004), in I Luoghi dei Carraresi, a cura di Davide Banzato e Francesca d’Arcais, Canova Edizioni, Treviso, novembre 2006, pp. 72-79. torna alla lettura
[12] G. e B. Gatari, Cronaca carrarese, a cura di A. Medin e G. Tolomei, R.I.S., t. XVII, P. I, Vol. I, Città di Castello, 1931, p. 137. torna alla lettura
[13] La data del 9 maggio 1374 (e non quella del 29 marzo della versione muratoriana della cronaca di Galeazzo, né quella del 1375 della cronaca di Andrea) è confermata dai Cortusii, Additamentum secundum ad chronicon, in L. A. Muratori, R.I.S., XII, col. 984. torna alla lettura
[14] A. Gatari, Chronicon patavinum italica lingua conscriptum ab anno 1301 usque ad annum 1406 auctore Andreae De Gataris nunc primum prodit ex manuscripto codice Bibliothecae Extensis. In L. A. Muratori, R.I.S., XVII, Milano 1730, p. 211. torna alla lettura
[15] Non può più essere tenuta in considerazione la testimonianza di J. Salomonio (in Urbis patavinae inscriptiones sacrae et prophanae, Padova, 1701, p. 544), che afferma essere ancora visibili nel 1701 le insegne gentilizie di Ezzelino da Romano, scolpite nel marmo e inserite sulla parete orientale della torre. E' stato infatti accertato, e confermato di recente da P. Dal Zotto, in Luigi il Grande, re d’Ungheria, nel castello carrarese, in Padova e il suo Territorio n. 138, aprile 2009, p. 22, che “nel bassorilievo in pietra di Nanto, ormai molto rovinato nella parte dello struzzo, conservato nel Lapidario del Museo Civico di Padova” e proveniente dalla torre del castello (inv. 352), è da riconoscere il cimiero di Ludovico (Luigi) d’Angiò. Le stesse insegne sono del resto state di recente ritrovate in una sala affrescata del castello. torna alla lettura
[16] G. e B. Gatari, Cronaca, cit. p. 335, versione di Andrea Gatari. torna alla lettura
[17] Ivi, p. 419-420. torna alla lettura
[18] Ivi, p. 425. torna alla lettura
[19] Ivi, p. 431. torna alla lettura
[20] Ivi, p. 477. torna alla lettura
[21] M. Savonarola, Libellus de magnificis ornamentis regie civitatis Padue, a cura di A. Segarizzi, R.I.S., Città di Castello, 1902, p. 50-51. torna alla lettura
[22] G. Lorenzoni, Il Castello di Padova e le sue condizioni verso la fine del secolo decimottavo, Padova 1896, p. 20. torna alla lettura
[23] A. Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1623, p. 87. Il Portenari scrive negli stessi anni nei quali è realizzata la lapide. Tuttavia Ettore Bressan ha raccolto la testimonianza di don Guido Beltrame, secondo il quale la data sarebbe il 1613: E. Bressan, Il castello di Padova, Treviso 1986, p. 26. torna alla lettura
[24] Nuovo Catasto e distinta descritione di tutte le case…nella città di Padova, B.C.P. 393. Utilizzata da G. G. Lorenzoni, Il Castello…, cit. p. 6 e 10 e trascritta e riprodotta da E. Bressan, Il castello…, cit. p. 57-61 e137-153. torna alla lettura
[25] G. Lorenzoni, Il Castello…, cit. p. 21. torna alla lettura
[26] Ivi, p. 19. torna alla lettura
[27] Riprodotti in E. Bressan, Il castello…, cit. p. 69-84. torna alla lettura
[28] G. Lorenzoni, Il Castello…, cit. p. 23. torna alla lettura
[29] Ivi, p. 26. torna alla lettura
[30] Ivi, p. 27. torna alla lettura
[31] Ivi, p. 28. torna alla lettura
[32] A.S.V., Miscellanea Mappe, 338. In E. Bressan, Il castello…, cit. p. 110. torna alla lettura
[33] Una Veduta della Specula alla parte di Saracinesca, disegno a penna acquarellato a bistro è ripresa da sud. Invece un disegno preparatorio a penna, due disegni a penna acquarellati, a seppia e a bistro, e un acquarello, tutti col medesimo punto di vista per l’Esterno del Castello di Ezzelino in Padova, e altrettanti per l’Interno del fu Castello ora casa di Reclusione, costituiscono nel complesso delle vedute da due soli punti di vista. Si veda il catalogo a cura di L. Grossato, Marino Urbani (1764-1853) Padova nel primo ‘800. Disegni e acquarelli, Padova, 1971, p. 44-60. torna alla lettura
[34] G. Lorenzoni, Il Castello…, cit., p. 29. torna alla lettura
[35] E. Bressan, Il castello…, cit. p. 115, 116, 120,124, 125. torna alla lettura