castello e reggia
Contributi e materiali
Questa pagina ospiterà contributi storici di vario genere e provenienza sulle vicende che hanno interessato il castello di Padova nel corso dei secoli e materiali utili per l'approfondimento della sua conoscenza.
Gli interventi sul tema del restauro e del riuso del castello si possono trovare alla voce Il dibattito nel menu Conservazione e restauro
Il ruolo del Castelvecchio in un progetto Settecentesco per il suo restauro e riuso in "Quartier di Cavallaria"
da "Padova e la sua provincia" A. XXVII, febbraio 1981, (riprodotto con l'autorizzazione dell'autore)
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Le origini del castello di Padova
Il castello di Padova come oggi lo conosciamo o meglio, per quanto lo andiamo riscoprendo sotto le trasformazioni subite nel corso dei secoli, è sostanzialmente il castello carrarese trecentesco, e più precisamente quello di Francesco il Vecchio da Carrara.
Sappiamo pure che i Da Carrara non lo edificarono ex-novo, ma modificarono, ingrandirono e abbellirono una struttura preesistente, il castello di Ezzelino da Romano, costruito intorno al 1242. La cui consistenza, a parte la presenza di due torri, e a parte i pochi resti della porta occidentale individuati di recente, ci è sostanzialmente ignota.
Meno noto è il fatto che già prima della venuta di Ezzelino esisteva in quello stesso luogo una struttura fortificata, diciamo pure un castello, formato essenzialmente da un piccolo ma solido recinto, posto a protezione di una alta e solida torre, forse di poco precedente e ancora oggi esistente, pur se più volte ricostruita. Si tratta della Torlonga, successivamente inglobata nel castello di Ezzelino e in quello carrarese e infine trasformata in specola astronomica.
Il recinto è stato definitivamente riconosciuto nel corso dei recenti lavori di restauro sul lato occidentale della struttura, preceduti da attente, anche se ancora incomplete, indagini archeologiche [1]. (E' indicato in verde nella pianta qui a destra, elaborata dall'archeologo Stefano Tuzzato).
E’ costituito, per i lati occidentale e meridionale, da due brevi tratti di muro che si agganciano alla Torlonga e, pur avendo lo stesso spessore (tre metri) delle mura comunali, che costituiscono i lati ovest e sud del recinto del castello carrarese, non sono stati edificati in continuità con esse e ne differiscono anche per le tecniche costruttive: le mura comunali sono state edificate in una fase successiva e si appoggiano ai due brevi tratti di muro, che sono dunque preesistenti, formando con essi un leggero angolo che altrimenti non avrebbe giustificazione.
Gli altri due lati del recinto, sempre di tre metri di spessore, sono oggi intuibili, più che visibili, nel volume dello scalone realizzato da Domenico Cerato per accedere all’osservatorio, scalone ricavato dunque nello spessore del muro.
Non molto di più si può dire su questa struttura, neppure dove fosse collocato l’ingresso, che si può solo supporre fosse a nord o ad est, unici lati non lambiti da canali.
Risalendo ancora nel tempo, già alla metà del secolo precedente si parla, in diversi documenti, di un castro patavino, di inter ambi castelli, e poi de castro de domo, etiam de castro Padensi [2]. Due castelli dunque: se l’uno è evidentemente il castello vescovile, è possibile che l’altro fosse proprio dove ancora si trova oggi, e sicuramente dall'XI secolo, il castello. Se così fosse, e quale ne fosse eventualmente la consistenza, non è per il momento possibile sapere, e neppure immaginare, senza il supporto di indagini archeologiche ancora tutte da effettuare.
Oltre, nel nostro percorso all’indietro nel tempo, non possiamo andare. E’ ormai quasi certo però che l’area dove poi sarebbe sorto l’attuale castello, posta nel punto in cui il Bacchiglione si suddivide in due rami che vanno a circondare l’intera città formando la cosiddetta insula, costituisce un punto forte fin da tempi remoti. Lo confermerebbero i recenti saggi archeologici compiuti all’esterno del lato occidentale del recinto della Torlonga, che hanno permesso di ritrovare importanti tracce di un muro romano in grossi blocchi di pietra analogo ai tratti già scoperti da tempo in più punti del perimetro dell’insula fluviale e pure di un muro altomedievale di un metro e mezzo di spessore, entrambi disposti in direzione nord-sud (indicati rispettivamente in rosso e in arancione nella piantina in alto). [1] I risultati delle ricerche archeologiche sul castello di Padova sono riassunti in S. Tuzzato, Il Castello di Padova fino ai Carraresi e le nuove ricerche (1994-2004), in I Luoghi dei Carraresi, a cura di Davide Banzato e Francesca d’Arcais, Canova Edizioni, Treviso, novembre 2006, pp. 72-79. torna alla lettura [2] Il dettaglio dei documenti citati è nelle note da 2 a 5 del saggio Il castello carrarese di Adriano Verdi, presente in questo sito, alle quali rimando. torna alla lettura
E’ invece ormai certo che la torre, attorno alla quale è costruito il recinto, è effettivamente quella turlonga di cui si fa cenno per la prima volta in un documento del 1062, ricostruita più volte, ma sempre sulle rovine della precedente, e che della struttura originaria conserva ancora oggi qualche metro di alzato. Essendo il recinto, secondo gli archeologi, coevo o di poco successivo alla torre, il piccolo castello viene datato perlomeno all’XI secolo.
Consistenza e funzione di quest’ultimo muro, di cui è stato intercettato un tratto troppo breve per trarne conclusioni univoche (una precedente torre? un tratto di cinta difensiva di epoca bizantina?) potranno forse essere chiarite da ulteriori indagini archeologiche, ma soprattutto occorrerà capire se il muro romano piegasse qui verso est, come più tardi la cinta comunale, oppure proseguisse verso sud fino al canale dell’Olmo (o delle Acquette).
Nel primo caso si avrebbe la conferma che il corso d’acqua oggi noto come Naviglio interno (riviera Tiso da Camposampiero), comunemente ritenuto artificiale e di epoca imprecisata ma relativamente tarda, sarebbe invece assai più antico e forse di origine naturale; e la presenza del nodo fluviale confermerebbe l’importanza del luogo per la difesa della città già in antico. Nel secondo caso, se cioè le mura proseguissero verso sud, si dovrebbe invece supporre una concomitanza di tempi fra lo scavo del canale e la costruzione della turlonga, oppure trovare una eventuale diversa ragione per la scelta di questo luogo, anziché l’incile del canale dell’Olmo, per la costruzione della torre e successivamente del castello.
Ugo Fadini, 2010
Patrizia Dal Zotto
Stemma e insegne di Ezzelino: un persistente equivoco
Le insegne di Luigi il Grande |
Il probabile stemma di Ezzelino |
Il frutto dell'equivoco |
“Struzzo crestato che tien nel becco un ferro da cavallo; cimiero aperto colla corona, prerogativa delle grandi famiglie; croce sulla parte davanti del cimiero, indizio di famiglia che è intervenuta all’impresa delle crociate. La croce è azzurra, perché tale era il colore de’ crociati italiani. Lo scudo è bipartito: i gigli sono un contrassegno de’ Guelfi, e forse furono adottati da Ecelino il Balbo: i Ghibellini usavano il giglio aperto. Le fascie rappresentano i nastri, che le dame donavano a’ cavalieri, quando entravano ne’ tornei: i colori d’oro e verdi sono quelli de’ Ghibellini”. Così Pompeo Litta delinea lo stemma di Ezzelino da Romano nella sua pregevole opera sulle famiglie nobili italiane del 1820.[1]
La riproduzione e la dettagliata descrizione dello stemma sono tratti dai documenti e dagli studi pubblicati nel 1779 da Giambattista Verci, il quale nella sua Storia degli Ecelini riproduce con una incisione su rame un esemplare a bassorilievo sopravvissuto alla distruzione di tutti gli stemmi ordinata per decreto dopo la morte del tiranno, esemplare che all’epoca del Verci ancora si poteva ammirare nella loggia della corte maggiore del castello di Ezzelino a Padova, e che doveva essere molto simile al bassorilievo ora esposto nel Lapidario del Museo Civico della città. Lo storico bassanese trovava nelle cronache contemporanee a Ezzelino o di poco posteriori e in testimonianze letterarie dei secoli successivi una conferma della sua attribuzione.[2]
Pompeo Litta, forte del documentato lavoro di Verci, fornisce quindi, con lo stemma a colori, un tassello fondamentale dell’iconografia ezzeliniana, cara alla pittura storica dell’Ottocento romantico e risorgimentale. Un elemento in particolare è costantemente riproposto quale segno distintivo del tiranno, rappresentato con lo stereotipo dell’uomo barbuto e arcigno: il cimiero con la testa di struzzo tenente nel becco un ferro da cavallo. [3]
Al Litta si rifà anche lo stemma civico di due comuni che hanno voluto conservare nel nome il ricordo della famiglia: Romano d’Ezzelino (Vicenza) e San Zenone degli Ezzelini (Treviso). Entrambi hanno da sempre tra le loro insegne la testa di struzzo (o di cigno) tenente nel becco un ferro da cavallo.[4]
Lo stemma minuziosamente descritto e interpretato da Giambattista Verci e da Pompeo Litta non è però affatto lo stemma degli Ezzelini (o dei Da Romano, o dei Da Onara, secondo altre denominazioni della famiglia che si estinse nel 1260 con l’uccisione degli ultimi consanguinei del tiranno Ezzelino), e lo dimostra un altro prolifico studioso e appassionato di storia locale. Nel suo intervento pubblicato nel 1896 nel “Giornale Araldico-Genealogico”, Francesco Franceschetti analizza attentamente il bassorilievo (non ascrivibile all’epoca di Ezzelino, ma successivo di almeno un secolo, e per lo stile della cornice e per la foggia dello scudo), rilegge le fonti e le testimonianze letterarie chiamate in causa dal Verci, non attendibili dal punto di vista storico, e, dopo aver quindi escluso che si tratti dello stemma di Ezzelino, Franceschetti ipotizza che possa essere lo stemma del re Luigi d’Ungheria, amico e alleato di Francesco da Carrara. Brillante intuizione che lo studioso trova confermata in due riproduzioni, di cui diremo: l’armoriale di Gelre e l’arca di San Simeone.[5]
È ben noto che il re ungherese strinse alleanza con i Carraresi contro Venezia, ma oltre ai rapporti politici e diplomatici dovremmo considerare anche rapporti di amicizia personali tra Francesco il Vecchio e Luigi il Grande, come trapela dalle Cronache dei Gatari[6], che riportano due lettere del re indirizzate al Carrarese, e come potrebbero rivelare le numerose lettere del re conservate negli archivi ungheresi[7]. Nel castello avrebbe quindi avuto una sua collocazione lo stemma di un sovrano straniero, proprio nel segno della gratitudine e riconoscenza del signore carrarese nei confronti del re alleato che in alcune occasioni gli fornì anche aiuto materiale[8]. Al castello ezzeliniano mise mano in un primo tempo Ubertino da Carrara, ma fu Francesco il Vecchio che intervenne con consistenti restauri su tutto il complesso del castello, avvalendosi dell’architetto Nicolò della Bellanda, il quale, iniziati i lavori nel 1374, li terminò in soli 4 anni, mantenendo l’impegno preso.
La dissertazione di Franceschetti viene successivamente ripresa, confermata e rafforzata, da Nicolò De Claricini Dornpacher, il quale, delineando definitivamente il vero stemma di Ezzelino da Romano, attraverso un attento studio delle fonti e di manoscritti, null’altro aggiunge di nuovo al nostro stemma con cimiero[9]. I due brevi studi si integrano: il Franceschetti occupandosi di attribuire correttamente lo stemma delineato da Verci, De Claricini Dornpacher occupandosi innanzitutto di “dotare” la famiglia di Ezzelino di uno stemma, che doveva in conclusione essere un semplice scudo triangolare (forma ancora caratteristica nel XIII secolo) fasciato d’oro e di verde, senza cimiero[10].
Il saggio del conte De Claricini cerca anche di chiarire dove fossero in origine collocati gli stemmi del re ungherese di cui si abbia notizia, in totale quattro.
Un primo stemma si trovava sulla torre prospiciente la città, cioè sopra la porta orientale, verso piazza Castello, ed è il pezzo che, smontato durante i lavori di adattamento dell’ex castello in Casa di Forza nel 1807, è approdato al Museo Civico nel 1874 dopo passaggi in collezioni private[11].
Un secondo si trovava in mezzo alla loggia del cortile principale, ed è quello disegnato da Verci. Quale sorte gli sia toccata non lo sa neppure De Claricini: pare sia stato veduto solo dallo storico bassanese[12].
Un terzo stemma De Claricini lo vide e lo fotografò sulla porta secondaria prospiciente il fiume Bacchiglione custodita dalla torre maggiore, visibile ancora oggi[13]. Scalpellato dai veneziani e molto rovinato già agli inizi del ‘900, non mi sembra che possa essere ricondotto al cimiero con testa di struzzo, in quanto le due ali tendono a chiudersi verso la cima, anziché aprirsi. Tuttavia l’edicola e la cornice trilobata che racchiude lo stemma è del tutto simile al disegno di Verci.
Infine un quarto stemma sarebbe esistito nella collezione Piazza, e venduto nel 1904, ma De Claricini, che ha raccolto la notizia, non sa né da dove provenisse (forse era sulla torre maggiore, la Torlonga), né che aspetto avesse (semplice cornice rettangolare, come il bassorilievo in Museo, o con edicola, come quello pubblicato da Verci?) e neppure dove sia andato a finire.[14]
È quindi assodato che il bassorilievo in pietra di Nanto esposto nel Lapidario del Museo Civico di Padova proveniente dalla porta orientale del castello carrarese raffigura lo stemma con cimiero di Luigi (o Ludovico[15]) il Grande, re d’Ungheria, e che non è il pezzo delineato colla maggior possibile diligenza da Verci.
Durante gli ultimi lavori di restauro sono emersi ampi resti della decorazione pittorica del castello carrarese, tra cui spicca un’ulteriore testimonianza iconografica delle insegne di Luigi d’Ungheria: una stanza interamente decorata con lo stemma bipartito e il cimiero di struzzo alternati nella fascia centrale lungo le pareti.[16]
Il dipinto permette di rendere più leggibile il bassorilievo in pietra di Nanto, ormai piuttosto rovinato nella parte dello struzzo, conservato nel Lapidario del Museo Civico, e ci permette anche di fare alcune osservazioni: la testa di struzzo del Verci è crestata, anziché coronata, errore che viene reiterato in tutte le riproduzioni successive e nell’iconografia ezzeliniana. I colori: nella versione a colori di Litta lo stemma ha verde e oro nelle fasce. La scheda di catalogo del pezzo al museo riferisce di tracce di oro e verde rinvenute durante i restauri del 1979 (tracce ormai non più visibili), non specificando però in quale zona dello stemma. È da supporre che tali tracce fossero nel partito con i gigli dello scudo, e che il verde fosse risultato di ossidazione di un azzurro, cosa che coincide appunto con i gigli d’oro in campo azzurro, e non con il fasciato d’oro e di verde dello stemma di Ezzelino.[17]
Lo stemma dipinto in castello è uno scudo partito (scudo a targa, con la tacca per la lancia, caratteristico del XIV secolo): la parte sinistra fasciata di rosso e bianco, la parte destra seminata di gigli in campo azzurro. Si tratta dello stemma del ramo ungherese degli Angioini, che governarono il Regno d’Ungheria per quasi un secolo, succedendo alla prima casa regnante, quella degli Árpád[18]. La discendenza dagli Árpád è indicata dalle fasce rosse e bianche, mentre l’appartenenza alla casa d’Angiò dai gigli d’oro in campo azzurro.[19]
Il cimiero dell’elmo è costituito da una testa di struzzo coronata, uscente da due piume di struzzo, che nel becco tiene un ferro di cavallo. Il significato di questo simbolo araldico, che non resta quale elemento duraturo nell’araldica ungherese, avrebbe a che fare con il rafforzamento del potere reale e con il rovesciamento dei baroni, cioè la nobiltà e i grandi proprietari, che tenevano sotto il loro dominio gran parte del Regno d’Ungheria, rovesciamento avviato da Carlo Roberto e portato avanti con importanti risultati dal figlio Luigi. Infatti secondo una credenza medievale lo struzzo sconfigge il cavallo: il cavallo, che simboleggia i baroni, è già stato ingerito dall’enorme uccello coronato (non crestato), simbolo del sovrano, ed è rimasto solo il ferro di cavallo pendente dal becco[20]. Questo cimiero è l’insegna di Luigi il Grande: una immagine molto eloquente della sua politica interna, e nello stesso tempo un monito rivolto ai sudditi, presente sulle monete, sul suo sigillo segreto e su ogni altro oggetto che dovesse portare la firma del re.
Una delle raffigurazioni più belle dello stemma sormontato dal cimiero è quella presente nel cosiddetto stemmario di Gelre, conservato nella Biblioteca Reale di Bruxelles: il manoscritto, realizzato tra il 1370 e il 1395 riproduce 1755 stemmi di tutta Europa, con particolare riguardo all’area fiamminga e renana. È la prima conferma che Franceschetti ebbe alla propria intuizione. Lo stemma ungherese rappresenta l’archiregno d’Ungheria al tempo di Luigi il Grande, e comprende le insegne di Polonia (l’aquila) e Dalmazia (le tre teste di leopardo coronate); la croce apostolica (a doppio braccio orizzontale) era già utilizzata da alcuni Árpád (fa riferimento all’incoronazione di Stefano, primo re ungherese e cristiano).
Il cimiero con la testa di struzzo, ma anche lo struzzo intero, indipendente dall’elmo, sempre recante un ferro di cavallo nel becco, compare già in alcune monete di Carlo Roberto[21], ma si configura ben presto come la “firma” del re Luigi il Grande, che ritroviamo sul suo sigillo segreto[22], sulle monete e su svariati oggetti, tra i quali oggetti liturgici o per il culto. L’esemplare più bello è il frammento di un grande fermaglio di piviale in argento, in parte dorato e cesellato, e smalti, recante lo stemma ungherese sormontato dal cimiero con lo struzzo, parte della donazione per la cappella ungherese di Acquisgrana[23], fatta costruire dallo stesso re nel 1367. L’arca di San Simeone è la più importante e sfarzosa opera dell’oreficeria medievale zaratina, commissionata dalla regina Elisabetta, moglie di Luigi il Grande, per contenere le reliquie del santo, e realizzata nel 1380 da Francesco da Milano[24]. I bassorilievi sulle lamine d’argento che rivestono la cassa di legno rappresentano scene della vita del santo e l’entrata di re Luigi d’Ungheria a Zara nel 1358, il cui stemma con cimiero e testa di struzzo è raffigurato in più punti.
Un bassorilievo in marmo rosso raffigurante l’elmo con cimiero, venuto alla luce durante le prime campagne di scavo effettuate nel XIX secolo nell’ambito dei resti della basilica reale di Székesfehérvár (Ungheria), era parte della decorazione araldica della cappella sepolcrale angioina fatta costruire da re Luigi il Grande, dedicata a santa Caterina[25]. Nella cappella vi trovarono posto i sepolcri di Carlo Roberto, di Luigi il Grande, della moglie, la regina Elisabetta e della figlia Caterina, morta nel 1374.
Analoghe le rappresentazioni su piastrelle di stufa di ceramica verde, provenienti dall’ala meridionale del castello di Buda, fatta costruire da Luigi il Grande a partire dal 1370, nell’ambito di lavori di ampliamento della sede reale. Sono conservate nel Museo Storico insieme ai numerosi frammenti della decorazione gotica del castello, venuti alla luce nel Novecento.
Lo stemma che Verci e Litta attribuiscono agli Ezzelini fa ormai parte dell’iconografia ezzeliniana, e come tale di fondamentale importanza per la lettura del “mito” ezzeliniano e delle sue rappresentazioni in particolare nell’Ottocento. Ma tale attribuzione non è più accettabile.
Come si può intuire dalle brevi note esposte, rintracciare le raffigurazioni dell’insegna personale di Luigi il Grande permette anche di ricostruire, attraverso i pochi frammenti sopravvissuti, le realizzazioni artistiche e il vivace clima culturale della corte angioina sotto il suo governo: una corte paragonabile, ad esempio, a quella dei Carraresi. Francesco il Vecchio e Luigi il Grande: due personaggi di alta levatura politica e culturale che hanno caratterizzato, con la loro figura e le loro opere, due territori, Padova e il Regno d’Ungheria, alla fine del Medioevo e alle soglie del Rinascimento.
Per concludere alcune note sulla rappresentazione dello struzzo tenente un ferro di cavallo nel becco e sulla sua simbologia.
Alcuni studiosi che si sono occupati della raffigurazione delle insegne del re ungherese non parlano di struzzo, bensì di otarda. L’otarda è un uccello che corre veloce, simile allo struzzo, ma con il collo molto più corto, diffuso in Europa: in effetti alcune rappresentazioni dello struzzo, in particolare quelle a figura intera (ma anche la sola testa del cimiero, come quella della cappella di San Giacomo al Santo[26]) presentano un collo tozzo, così poco caratteristico dello struzzo. Mi pare comunque che non sia fondamentale la differenza struzzo/otarda, e che in fin dei conti sia lo stesso animale, almeno per la simbologia e l’iconografia medievali.
Lo struzzo nel Medioevo era considerato un animale particolare per i suoi strani comportamenti che diedero origine a credenze, leggende e simbologie cristiane. Non vola ma corre velocissimo, cosa che doveva apparire impossibile per una creatura del cielo; non cova le uova, ma le depone sul terreno e le fa covare dal calore del sole; cova le uova fissandole con lo sguardo; ha le piume tutte della stessa lunghezza. Lo struzzo è quindi simbolo della resurrezione per i cristiani (un uovo di struzzo appeso in chiesa serviva da monito per il cristiano che dimenticava Dio, o aveva funzione meditativa); simbolo di giustizia (già presso gli antichi egizi). Simboleggia la capacità di dominare le difficoltà più dure, perché è in grado di ingoiare e digerire anche pezzi di ferro e pietre, e questa è la sua caratteristica più appariscente. Viene infatti rappresentato con un chiodo, una chiave o, soprattutto, un ferro di cavallo nel becco, e questo oggetto è a tal punto caratteristico delle rappresentazioni dello struzzo che è sufficiente per identificare come tale qualsiasi uccello che lo porti nel becco[27]. Con questa caratteristica e questa iconografia viene spesso scelto come insegna per le farmacie. Anche a Padova operava una farmacia all’insegna dello struzzo d’oro, il cui sigillo era conservato nelle raccolte del Museo Bottacin nei primi anni del Novecento: una figura di struzzo intera con un ferro di cavallo nel becco, recante l’iscrizione SPEZIARIA ALLO STRUZZO IN PADOVA. La farmacia rimase vittima della distruzione del quartiere di S. Lucia, il sigillo d’altra parte non ebbe sorte migliore, tra guerre e traslochi, dato che non ne resta più traccia se non la descrizione nei registri e nei cataloghi delle collezioni civiche[28]. Lo struzzo con un ferro di cavallo nel becco venne scelto anche dallo stampatore veneziano Marcantonio Zaltieri come marca tipografica, con il motto NIL DURUM INDIGESTUM (1575-1600 ca.).
Nell’araldica italiana lo struzzo rappresenta l’obbedienza del suddito e la giustizia[29], ma non ho trovato alcun riferimento particolare al ferro di cavallo pendente dal becco, che sembrerebbe essere puramente funzionale a distinguere lo struzzo da altri uccelli.
[1] P. Litta, Famiglie celebri d’Italia, Milano, 1820, vol. II. L’opera in 16 volumi, pubblicata dal 1819 al 1885, continuata da altri studiosi dopo la morte del conte Litta (1852), per ciascuna famiglia contiene la genealogia, lo stemma, ritratti dei principali membri, e la riproduzione di diversi oggetti d’arte relativi, come monete, medaglie, monumenti funebri, bassorilevi, alcuni ormai scomparsi. torna alla lettura
[2] G.B. Verci, Storia degli Ecelini, Bassano del Grappa, 1789, tomo I, pp. 189-191. torna alla lettura
[3] Si veda: F. Scarmoncin, Iconografia di Ezzelino III da Romano, in R. Del Sal e M. Guderzo, Mille anni di storia. Bassano 998-1998 (cat. mostra bassano del Grappa, 22 luglio-8 novembre 1998), Cittadella, 1999, pp. 26-29. Un brevissimo intervento che tratteggia le linee essenziali della rappresentazione del principale esponente della famiglia degli Ezzelini. torna alla lettura
[4] Il comune di Romano ha aggiunto la specificazione d’Ezzelino nel 1867, subito dopo l’annessione del Veneto all’Italia, per distinguersi da altri comuni omonimi. Si veda: G. Farronato, Uno stemma per Romano d’Ezzelino, Romano d’Ezzelino, 1993. Interessante opuscolo che ripercorre l’origine e l’uso delle insegne del comune, traenti ispirazione dallo stemma di Litta. torna alla lettura
[5] F. Franceschetti, Sul creduto stemma gentilizio degli Ezzelini, in “Giornale araldico-genealogico diplomatico”, XXIV (1896), pp. 1-8 (pubblicato anche in estratto, 23 pagine totali, di formato molto più piccolo rispetto al Giornale). torna alla lettura
[6] G e B. Gatari., Cronaca carrarese, in Rerum Italicarum scriptores, vol XVII, Città di Castello, 1932. torna alla lettura
[7] Ne è stata pubblicata una raccolta, tradotta in ungherese dall’originale latino: Árpád-kori és Anjou-kori levelek XI-XIV százád [Lettere delle epoche arpadiana e angioina, XI-XIV secolo], a cura di L. Makkai e L. Mezéy, Budapest, 1960. Non sono solo lettere ufficiali. torna alla lettura
[8] Celebre l’episodio, riportato dai Gatari, delle tre carrette cariche di piastre d’oro e d’argento che Francesco da Carrara fece coniare in monete. torna alla lettura
[9] N. De Claricini Dornpacher, Lo stemma dei Da Onara o Da Romano. Studio storico-critico, Padova, 1906. torna alla lettura
[10] In C. Bertelli e G. Marcadella, Ezzelini. Signori della Marca nel cuore dell’Impero di Federico II, Bassano del Grappa, 2001 (catalogo della mostra), p. 13 e (stesso titolo), Milano, Skira, 2001, p. 39-41, Laura Pontin, riesaminando gli studi e le fonti di Franceschetti e di De Claricini Dornpacher, chiarisce in modo dettagliato l’aspetto dello stemma di Ezzelino, pubblicando anche la prima descrizione nota di tale stemma: un disegno (con il nome dei colori) tra le postille aggiunte nei margini di un manoscritto della Biblioteca Civica di Padova, disegno individuato da De Claricini. torna alla lettura
[11] G. Lorenzoni, Il castello di Padova e le sue condizioni alla fine del secolo decimottavo, Padova, 1983 (rist. anast. dell’edizione 1896). torna alla lettura
[12] Non è chiaro neppure dove fosse collocato esattamente. Dalle parole del Verci sembrerebbe fosse sul lato nord della corte: forse in corrispondenza della stanza affrescata con lo stesso stemma? “Essa [l’arma] è posta nella loggia superiore e alla destra di chi entra nel Castello, che fu fatto fabbricare dal medesimo Ecelino. È scolpita in pietra tenera di Nanto, ed incastrata nella muraglia verso la metà della detta loggia all’altezza di sei piedi in circa sopra il pavimento” (G.B. Verci, op. cit., p. 189). torna alla lettura
[13] Riportato anche da Dercsény: D. Dercsény, Nagy Lajos kora [L’epoca di Luigi il Grande], Budapest, 1990 (ristampa dell’edizione del 1941). torna alla lettura
[14] N. De Claricini Dornpacher, op. cit., pp. 31-33. torna alla lettura
[15] Il nome latino Ludovicus ha diversi esiti nelle diverse lingue: in italiano Ludovico o Luigi, in veneziano Alvise, in ungherese Lajos, Luois in francese, Ludwig in tedesco, Lewis in inglese. torna alla lettura
[16] Si veda: A. Spiazzi, Pitture murali nel castello carrarese, in “Padova e il suo territorio”, n. 138, 2009, pp. 18-20; P. Dal Zotto, Luigi il Grande, re d’Ungheria, nel castello carrarese, in ibid., pp. 21-24. torna alla lettura
[17] Cento opere restaurate del Museo Civico di Padova, Padova, 1981 (cat. mostra Nuovo Museo Civico agli Eremitani, 1981), p. 217; D. Banzato e F. Pellegrini, Il Lapidario del Museo d’Arte Medievale e Moderna, Venezia, 2000. torna alla lettura
[18] (Santo) Stefano Árpád viene incoronato nel 1000; l’ultimo della dinastia, Andrea III, muore nel 1301. Segue quasi un decennio di disordini, e poi gli angioini: Carlo Roberto d’Angiò (1310-1342), figlio di Carlo II re di Napoli e di Maria Árpád, suo figlio Luigi il Grande (1342-1382), sua figlia Maria (1382-1395). torna alla lettura
[19] I. Bertényi, Kis magyar címertan [Piccola grammatica araldica ungherese], Budapest, 1983. Un confronto tra diverse raffigurazioni dello stemma regale sulle monete permette di evidenziare che il re Carlo Roberto all’inizio del suo regno portava la partitura invertita, ossia i gigli a sinistra. Il cambiamento avviene nel 1336-37, e indica un mutato approccio del sovrano nei confronti del proprio ruolo: re d’Ungheria angioino. torna alla lettura
[20] Secondo quanto afferma Szabolcs Vajay, eminente studioso di araldica ungherese e francese, citato in I. Bertényi, Kis magyar címertan, op. cit., p. 71. torna alla lettura
[21] Fu il re Carlo Roberto d’Angiò a introdurre in Ungheria il fiorino d’oro, su modello della moneta di Firenze. torna alla lettura
[22] Si vedano: Nagy Lajos király kora, 1342-1382 [L’epoca del re Luigi il Grande, 1342-1382], Székesfehérvár, 1982 (cat. mostra István király Múzeum, Székesfehérvár; 1982/83); D. Dercsény, Nagy Lajos kora, op. cit. Sono le due opere più importanti e complete, tuttora valide per ricostruire i quattro decenni che videro la massima estensione territoriale dell’Ungheria. torna alla lettura
[23] Si veda per maggiori dettagli e per gli altri oggetti del tesoro: L'Europe des Anjou: aventure des princes angevins du 13. au 15. siecle, Paris, 2001 (cat. mostra Abbazia di Fontevraud, 2001). torna alla lettura
[24] N. Jakšić, Committenze artistiche sulle coste adriatiche nel Medioevo, in “Patrimonio di Oreficeria Adriatica”, anno 1, n. 1, 2007 (rivista semestrale on-line: ). Si veda anche: I. Petricioli, Skrinja Sv. Simuna u Zadaru [L’arca di San Simeone a Zara], “Monumenta Artis Croatiae” I. 3., Zagreb, 1983. torna alla lettura
[25] La basilica reale di Székesfehérvár fu distrutta dai turchi nel XVI sec., e solo a partire dalla prima metà del XIX secolo vennero eseguiti degli scavi, in più riprese, spesso senza continuità, a volte senza la possibilità di indagare in modo completo il terreno. La ricostruzione di cappella e decorazione, che si basa anche su descrizioni e cronache medievali, non è ancora completa e univoca. L’ultima campagna di scavo del 2004 ha portato alla luce altri resti, in parte riferibili alla cappella funeraria degli angioini. I risultati non sono ancora stati pubblicati. Si veda: Nagy Lajos király kora..., op. cit. torna alla lettura
[26] Negli affreschi della cappella di San Giacomo al Santo, è stato da tempo individuato un ritratto del re ungherese nelle tre scene della storia di Carlo Magno, legata alla figura di san Giacomo: Il sogno di Carlo Magno, Il Consiglio della Corona, La presa di Pamplona. In quest’ultima scena uno scudiero, in piedi accanto al re, regge l’elmo con cimiero di testa di struzzo. Questa interpretazione del soggetto degli affreschi, ormai accettata, si differenzia dalla precedente, di lunga tradizione, che vedeva nella figura del re, rappresentato appunto nelle vesti del re Luigi d’Ungheria, il re Ramiro e la battaglia di Clavigo. Si veda in proposito: G.. Valenzano, Fonti iconografiche del ciclo giacobeo, in Cultura, arte e committenza nella Basilica di S. Antonio a Padova nel Trecento, a cura di L. Baggio e M. Benetazzo, Padova, 2003 (atti del Convegno Internazionale di Studi, Padova, 2001), pp. 335-347. Per il ritratto del re Luigi d’Ungheria si veda: DERCSÉNY D., Ricordi di Luigi il Grande a Padova, in “Corvina” n.s., Budapest, 1940, pp. 468-480. torna alla lettura
[27] E. De Boos, Dictionnaire du blason, Paris, 2001, p. 32; F. Maspero e A. Granata, Bestiario medievale, Casale Monferrato, 1999, pp. 420-428. torna alla lettura
[28] L. Rizzoli, I sigilli del Museo Bottacin di Padova, Bologna 1974 (ristampa anastatica dei volumi pubblicati nel 1903-08). torna alla lettura
[29] P. Guelfi Camajani, Dizionario araldico, Milano, 1940; F. Di Montauto, Manuale di araldica, Firenze, 2001. torna alla lettura
La torre dell'orologio di Piazza dei Signori è la parte centrale della quinta scenografica costituita dal fronte del Palazzo del Capitanio che faceva da sfondo alle cerimonie pubbliche e alle feste che sotto la Repubblica di Venezia, dal 1405 al 1797, si svolgevano nella piazza, come in un gran teatro. Questo che immette nell'attuale piazza Capitaniato era anche uno degli ingressi alla Reggia Carrarese, residenza e sede del governo dei signori della città, edificata per volere di Ubertino da Carrara (1338-1345).
Il castello di Ezzelino
Il problema del castello di Ezzelino a Padova, della sua estensione e consistenza e di cosa eventualmente ne rimanga oggi, è tuttora aperto e quasi privo di risposte certe.
Le stampe sette-ottocentesche che raffigurano il castello di Padova, quando non fanno riferimento alla specola, titolano "Il castello di Ezzelino" e ancora di recente alcuni studiosi hanno usato senza problemi questa definizione. Solo negli ultimi anni le si è sostituita quella di "Castello carrarese", anche se, proprio per la sua lunga, anche se non ancora chiarita, storia precedente, la definizione più appropriata, a nostro parere, rimane quella di "Castello di Padova".
In effetti, salvo poche tracce più antiche, quanto oggi vediamo appartiene al castello carrarese trecentesco; a sua volta peraltro non semplice da ricostruire nella sua forma originaria, dopo le manomissioni Sette e Ottocentesche.
Ricapitoliamo qui, sulla base di quanto finora pubblicato e noto a chi scrive, senza pretese scientifiche, lo stato delle conoscenze riguardo alla fase ezzeliniana del castello. Per ogni approfondimento e verifica di quanto esposto si rimanda alla bibliografia indicata nelle note.
Le fonti storiche
Sappiamo con certezza dai documenti che Ezzelino III da Romano, subito dopo aver conquistato definitivamente Padova nel 1237, procedette alla costruzione di un nuovo castello. Le cronache a lui contemporanee [1] ci forniscono poche informazioni, seppure preziose, come l'anno di inizio dei lavori, il 1242, il fatto che avesse due torri, e tetre prigioni in almeno una di esse, e che il suo perimetro inglobasse la antica chiesa di S. Tommaso, che per tale ragione fu ricostruita più a nord, dove ora si trova la sua edizione seicentesca. Almeno la sua localizzazione è dunque sicura: la stessa della precedente Turlonga e del successivo castello carrarese.
Le notizie, quasi tutte di parte avversa ai Da Romano, sono accompagnate da truci racconti riguardo alle caratteristiche e all'uso delle prigioni, ma in particolare al destino del loro supposto artefice, il milanese Zilio (da cui le torri presero il nome di Zilie), che avrebbe finito i suoi giorni nelle orribili prigioni da lui stesso progettate con grande zelo [2].
I dati archeologici
L’unico dato di cui oggi siamo sufficientemente certi è che la maggiore delle due torri Zilie altro non fosse altro che la preesistente Turlonga, eventualmente ricostruita da Ezzelino su precedenti resti diroccati, o comunque aggiornata (e successivamente conservata, con ulteriori rifacimenti, nella versione carrarese del castello e infine trasformata nel Settecento nell’attuale Specola). E’ infatti accertato che almeno la base della torre sia precedente, per materiali e modi costruttivi, al Duecento, e sia quindi la Turlonga citata nei documenti a partire dal 1062 [3], e dato che è certamente anche una delle due torri del castello carrarese, è logico concluderne che facesse parte anche del castello di Ezzelino assieme al piccolo ridotto, di costruzione coeva o di poco posteriore, che la circondava sui lati nord ed est [4].
Di conseguenza è ragionevole ritenere che pure la seconda torre del castello carrarese, quella ad est verso piazza Castello, possa essere un aggiornamento della seconda Zilia del castello di Ezzelino. In mancanza di prove archeologiche e stante l'incertezza sulla effettiva estensione del castello di Ezzelino, questa rimane però soltanto un'ipotesi
Un terzo elemento, scoperto durante i recenti scavi archeologici all’interno della torretta che proteggeva uno dei due ingressi del castello carrarese, verso il Tronco Maestro, accanto alla Torlonga, potrebbe, secondo l’indicazione dell'archeologo Stefano Tuzzato [5], appartenere al castello di Ezzelino: si tratta dell’alloggiamento dei cardini di un portone che restringe la luce della grande porta urbica comunale oggi “nascosta” all’interno della torretta. E' quindi posteriore alla porta comunale, realizzata fra 1195 e 1210, ma precedente alla torretta, che con la sua doppia porta, carraia e pedonale, si sostituì a sua volta al portone nel corso del Trecento: è quindi ragionevole ritenere che il portone più stretto costituisca la trasformazione della porta da pubblica a porta del castello e che quindi la si debba attribuire al tiranno.
Null’altro di concreto si conosce del castello di Ezzelino: neppure delle famigerate prigioni si è trovata traccia certa, almeno finora, né all’interno della Torlonga, né della seconda torre. Manca ancora un’analisi stratigrafica completa delle murature del castello, ma a quanto si sa tutte quelle esaminate finora sono risultate di epoca al più trecentesca, salvo quanto visto nel sondaggio archeologico all’esterno della torretta già citata, dove però le tracce precedenti si riferivano ad epoche assai più remote e quindi non in relazione con Ezzelino [6].
Si deve però dare per scontato che il castello ezzeliniano inglobasse il piccolo ridotto già esistente attorno alla Torlonga, visto che si allarga abbastanza da inglobare nella sua cinta la porta comunale di cui si è detto, che diventa porta del castello. Inoltre, se si accetta che la seconda torre sia la stessa del castello carrarese e si tiene conto dell’inglobamento nel suo perimetro della chiesa di S. Tommaso, è ragionevole supporre che l'area occupata dal castello potesse coincidere grosso modo con quello della successiva ricostruzione carrarese. Del resto, il breve torno di tempo, quattro anni, in cui Niccolò della Bellanda, su ordine di Francesco il Vecchio da Carrara, procedette alla “costruzione” del nuovo castello, con tutto il complesso apparato decorativo che oggi si va riscoprendo, fa pensare alla ristrutturazione, diremmo oggi, di una struttura esistente, piuttosto che ad una costruzione ex-novo.
Le leggende
Delle prigioni si è detto: non si è trovata conferma che fossero nelle torri, nonostante la lapide del 1618 che ne ricorda l'esistenza nella Torlonga [7], il ché naturalmente non esclude che potessero essere da qualche altra parte del castello. Il carattere efferato e sanguinario del Da Romano, definito e fissato da una tradizione a lui avversa, è stato in parte ridimensionato dalla storiografia più recente, come del resto il suo deleterio influsso sulla città di Padova, che invece a quanto pare continuò a prosperare anche sotto la sua tirannia, ma di certo prigioni nel castello dovevano esserci e, secondo gli usi dell’epoca, non erano certo luoghi confortevoli.
Dubbia è pure la storicità della figura dell’architetto Zilio, il cui nome è riportato solo da Pietro Gerardo, la cui attendibilità è spesso messa in dubbio dagli storici: la leggenda che lo riguarda sembra infatti più una parabola esemplare costruita ad arte che una storia reale. Pare però certo che le due torri furono effettivamente a lungo note come Zilie, quindi è d’obbligo sospendere il giudizio in proposito.
E’ stata invece definitivamente smentita la notizia data per primo dal Salomonio nel 1701 [8], e riportata da Giuseppe Lorenzoni [9], secondo la quale sul muro della seconda torre, quella verso piazza Castello, era ancora visibile all'epoca un bassorilievo con le insegne di Ezzelino. Il bassorilievo effettivamente c’era, fu smontato all'epoca della trasformazione del castello in carcere, che comportò la drastica riduzione in altezza della torre, e dopo qualche passaggio intermedio è approdato ai Musei Civici, dove è tuttora esposto. Solo che non si tratta affatto delle insegne di Ezzelino: il cimiero con lo struzzo coronato, con un ferro di cavallo nel becco e lo scudo bipartito con a destra i gigli angioini, sono le insegne di Luigi il Grande d’Ungheria, storico e più importante alleato dei Carraresi e in particolare di Francesco il Vecchio nelle guerre contro Venezia [10]. Cimiero e stemma si possono oggi vedere negli affreschi scoperti nel 2007 in una cella del carcere, rivelatasi importante sala di rappresentanza del castello carrarese.
L’infortunio storico (al quale si accodava anche Giovan Battista Verci, che pubblicava anche l'incisione di un altro bassorilievo esistente allora sotto la loggia della corte del castello, anch'esso raffigurante il cimiero di Luigi il Grande e non quello di Ezzelino [11]) si è purtroppo trasformato in “leggenda metropolitana”, con effetti ormai difficili da sanare, visto che l’attribuzione dell'insegna ad Ezzelino continua a venire riconfermata su pubblicazioni d'ogni genere, dopo aver prodotto l’effetto collaterale di far adottare quel cimiero, pur con diversi colori, come parte del proprio stemma dal comune di Romano d’Ezzelino (e la sola testa di struzzo anche da quello di S. Zenone degli Ezzelini).[12]
Ugo Fadini, 2010
[1] Rolandini Patavini Cronica circa facta et factis Marchie Trivixane, a cura di A. Bonardi, R.I.S., t. VIII, p. I, Città di Castello 1906-8, p. 77: “Hoc eodem anno, mense augusti, inceptum est castrum, quod Ecelinus fecit in Padua fieri circa ecclesiam sancti Tomasii, ipsa ecclesia circumdata et clausa in castro”. Ma anche nel Liber Regiminum Padue, R.I.S., t. VIII, p. I, a cura di A. Bonardi, Città di Castello 1904, p. 315: “Et die XVI septembris MCCXLII inceptum fuit castrum Sancti Thomasii de Padua”. torna alla lettura
[2] P. Gerardo, Vita et Gesti d’Ezzelino terzo de Romano, de l’origine al fine di sua famiglia, sotto la cui tirannide mancarono di morte violenta più di XII millia Padovani, Venezia 1543, c. 60. Il racconto è anche in Rolandino, op. cit., ma non viene nominato Zilio. torna alla lettura
[3] A. Gloria, Codice diplomatico padovano dal secolo sesto a tutto l’undecimo, Venezia 1877, vol. I, d. 185, 21. Nominata poi anche in un documento del 21 agosto 1102, in P. Sambin, “Nuovi documenti padovani dei secoli XI e XII”, Venezia 1955, d. 2, 2. torna alla lettura
[4] S. Tuzzato, Il Castello di Padova fino ai Carraresi e le nuove ricerche (1994-2004), in I Luoghi dei Carraresi, a cura di Davide Banzato e Francesca d’Arcais, Canova Edizioni, Treviso, novembre 2006, pp. 72-75. torna alla lettura
[5] Ivi, pp. 75-76. torna alla lettura
[6] Ivi, pp. 72. torna alla lettura
[7] A. Portenari, Della felicità di Padova, Padova 1623, p. 87. torna alla lettura
[8] J. Salomonio, Urbis patavinae inscriptiones sacrae et prophanae, Padova, 1701, p. 544. torna alla lettura
[9] G. Lorenzoni, Il Castello di Padova e le sue condizioni verso la fine del secolo decimottavo, Padova 1896, p. 20. torna alla lettura
[10] P. Dal Zotto, Luigi il Grande, re d’Ungheria, nel castello carrarese, in Padova e il suo Territorio n. 138, aprile 2009, p. 22. torna alla lettura
[11] G.B. Verci, Storia degli Ecelini, Bassano 1779, p. 189-191. torna alla lettura
[12] Per approfondire l'argomento, si consiglia la lettura di: P. Dal Zotto, Stemma e insegne di Ezzelino: un persistente equivoco.