Estratto da

La salvaguardia del patrimonio architettonico veneto
a cura di Elena Ballini

Regione del Veneto, s.d., (ma 2008)



Guglielmo Monti


DUE STRATEGIE PER IL RESTAURO


E' ormai abbastanza accertato che il restauro, quale oggi lo intendiamo, sia nato insieme all'architettura contemporanea, tra la semplificazione illuminata della fine del XVIII sec. e l'affermarsi del neogotico nella prima metà del XIX sec. Prima, in mezzo e, con alcuni strascichi, dopo, fiorisce il neoclassico, estrema manifestazione del classicismo moderno, fondato sull'autorità del mondo antico. La codificazione dell'attività di rivitalizzazione del passato che come pratica celebrativa è sempre stata concessa alla produzione di architettura, in quel periodo fatale trova le sue prime e fondanti manifestazioni, che pertanto, sin dagli esordi, sono ambiguamente partecipi di entrambi i movimenti.

Possiamo trovare nella passione neoclassica per le scoperte archeologiche e per il collezionismo museale, da Winckelmann a Canova, l'espressione di una grande reverenza verso i reperti dell'antichità classica, ma non può sfuggirci la presenza di una componente illuminista tendente a riunire sotto il segno della ragione i segni più illustri della cultura mondiale in luoghi istituzionali e a farne i prototipi dell'arte universale. Nel contempo è chiaro che un simile obiettivo, proprio per il suo ecumenismo, apra la strada a possibili connubi eclettici.

D'altro canto lo sperimentalismo neo gotico, reperibile, pur con le note formulazioni tecniche contrapposte, sia in Ruskin che in Viollet-Le-Duc, se per un verso si presenta come apertura verso la varietà dei diversi medio-evi nazionali, al di là dell'omologazione classicista è d'altronde caratterizzato da una forte volontà unitaria di carattere ideologico, connotata da caratteri simili ad alcune formulazioni illuministe, quali la sincerità dei materiali e dell'impianto. Si vede quindi come le due correnti siano apparentate, più di quanto non sembri dalle loro scelte più appariscenti, da un contrasto non risolto tra disponibilità ad accogliere il passato nella molteplicità delle sue manifestazioni e volontà di fondare su di esso un rinnovamento precisamente indirizzato. Pur non essendo naturalmente affetta da tale dicotomia tra filologia e scelta stilistica, l'architettura contemporanea riflette la propria analoga nascita ambigua nel dilemma mai sanato sino ad oggi, tra libertà eclettica di elaborazione formale e sua riduzione al grado vero.

Così cariche di dubbi, le due pratiche della cura dell'antico e della produzione del nuovo, ormai divaricata, arrivano nel novecento ad una netta divisione dei campi, che sottende però una strategia comune. Mentre i costruttori del futuro propugnano un'ideologia della riduzione del patrimonio storico a pochi campioni esemplari, da lasciare come ricordi decontestualizzati in un tessuto insediativo totalmente nuovo, i cultori del passato elaborano una pratica restaurativa adatta a congelare per l'eternità quei pochi monumenti.
 Questa spartizione di compiti fondata sulla demolizione da un lato e sull'imbalsamazione dall'altro, entra però in crisi dopo la seconda guerra mondiale, quando appare chiaro che l'avanguardia architettonica non ha prodotto una nuova forma aggregativa convincente e quindi riprende forza, nutrita dalle distruzioni belliche, la nostalgia della vecchia città, nata nell'ottocento con gli abbattimenti delle mura urbane. Cominciano nel nuovo gli ammiccamenti della tradizione, mentre il culto del vecchio perde la sua vocazione unitaria alla cura monumentale e si divide profondamente.

Sul versante del vecchio mondo della conservazione, crolla la fiducia nei restauri definitivi, fondati spesso sul mito di un cemento armato supposto eterno e rivelatosi invece piuttosto effimero negli ultimi decenni del novecento. Prende invece sempre più piede il prestigio dell'immagine, che porta a superare lo scrupolo di autenticità, sostenuto fino allora grazie ad acrobatiche anastilosi tecnologiche o a magici incollaggi chimici. Al suo posto, in barba alle raccomandazioni accumulate nelle corti del restauro da una riflessione secolare, si diffondono le ricostruzioni in stile, nate nel dopoguerra dal sentimento di appartenenza offeso dalle brutali aggressioni e diffuse in periodi più recenti con la complicità dei riflussi post-moderni. Bisogna riconoscere che, se si è disposti a sacrificare l'azione del tempo sulle forme e la loro intima connessione tra immagini e struttura, è più facile ritrovare la vecchia solidarietà tra restauratori e distruttori.

Questi ultimi possono, infatti, compiere la propria opera di sostituzione con più tranquillità se qualcuno garantisce loro la possibilità di rifare, volendo, le immagini di un tempo, magari adattate alle nuove tecniche costruttive e alle attuali esigenze impiantistiche. E d'altronde i conservatori possono rinunciare alle preoccupazioni filologiche e agli imbarazzi derivanti dalle sovrapposizioni temporali, perché se il passato si può ricreare, allora si può anche scegliere di restituirlo nella sua forma migliore, nuovo di zecca. Tutt'al più, in omaggio al prestigio dell'anzianità, si potrà sempre antichizzare un po’ il rifacimento, anche per renderlo più plausibile. La vastità dei danni di guerra e la spregiudicata volontà di rivalsa della ricostruzione determinano però anche una più matura coscienza del valore determinante che i contesti assumono nei confronti delle emergenze monumentali. Nella desolazione delle rovine, palazzi e cattedrali appaiono isolati e insufficienti a dar conto delle glorie passate, mentre ogni rifacimento in stile, pur dando soddisfazione alla nostalgia, manifesta uno sradicamento e una sfiducia nella storia con più evidenza dei complessi ruderali. Riprendono allora fiato le ricerche avviate negli anni '30 sull'architettura "minore" e sui valori dell'ambiente naturale e costruito. Con l'aiuto degli studi europei sui patrimonio rurale e sull'archeologia industriale, si determina, nei confronti delle ricerche anteguerra, un interessante cambiamento di prospettiva. Mentre, infatti, quelle concezioni, informatrici della prima legge italiana sulla tutela ambientale, si basavano sull'estetica dei "quadri naturali", delle manifestazioni eccezionali e degli sfondi ai monumenti, la nuova riflessione ambientalista porta verso una nozione di paesaggio estesa all'insieme dei fenomeni formativi del territorio.

Superata così ogni selezione estetizzante, si sposta l'attenzione sull'intima connessione esistente, nel tempo, tra tutte le attività che determinano la forma degli insediamenti, dove le emergenze monumentali perdono il loro ruolo di assoluti protagonisti per assumere quello di importanti tasselli di un mosaico più vasto.

E' evidente che, in una simile prospettiva, il bene culturale non è più un oggetto speciale di cui occorre curare la musealizzazione o la falsificazione, bensì una forma di rispetto consapevole da estendere a tutte le manifestazioni vitali. Altrettanto chiaro dovrebbe risultare che un quadro così vasto da accogliere al proprio interno il mutamento, la cui regolazione secondo modalità che prevedono un dialogo armonico tra passato e futuro diventa fondamentale e difficilmente scindibile dalle attività restaurative.

A quest'opera di cura attiva del territorio come bene culturale sono chiamate le politiche agricole come le attività industriali, il turismo come la salvaguardia dei monumenti, l'edilizia e la toponomastica. E' un intero Paese che dovrebbe perseguire prioritariamente quest'obiettivo attraverso le sue diverse attività, che così cesserebbero finalmente di essere confliggenti e contradditorie.

Ma evidentemente lo sforzo richiesto risulta eccessivo, comportando un radicale cambiamento rispetto a quella comoda divisione di ruoli tra conservatori e distruttori che abbiamo visto all'opera nel corso del novecento e continuiamo ad incontrare oggi nelle sue forme più devastanti. Non troviamo, infatti, nel panorama attuale una scelta tra i due versanti del culto del passato e questa pericolosa ambivalenza si riflette negli strumenti legislativi più recenti, come il "Codice Urbani", come anche nelle pratiche di tutela del patrimonio.

Può essere interessante capire, per guardare da vicino le conseguenze di una simile dicotomia, come cambiano i criteri di apposizione dei cosiddetti "vincoli" e di concessione di finanziamenti a seconda che si aderisca all'una o all'altra filosofia d'iniziativa culturale. Se si considera oggetto della tutela il paesaggio, visto nel suo insieme come mosaico dei beni culturali e terreno di composizione tra passato e futuro, è conseguente non falsare nessuno dei due aspetti e quindi adottare modalità conservative incentrate sulla maggior integrità materica compatibile con le esigenze attuali, piegando, se necessario queste ultime alle preesistenze. Nell'attività vincolistica si dovrà attuare la minor selezione possibile, giudicando reperti anche modesti come opportunità di approfondire l'identità dei luoghi e di scavare nelle vicende temporali. In questa direzione lo stesso strumento del vincolo come delimitazione dell'area di interesse appare uno strumento provvisorio, da utilizzare senza remore in una situazione confusa come l'attuale, ma destinato a venir superato da una gestione oculata di tutto il territorio, attenta a praticare quella che già la carta europea del restauro, nel '75, definiva "conservazione integrata".

Mano a mano che ci si avvicina a questo traguardo, i confini delle aree vincolate dovrebbero tendere a cadere come incongrue limitazioni di un'azione che per essere veramente efficace deve estendersi all'intero ambito antropizzato. Nel frattempo le zone su cui si esercita la tutela dovranno essere, secondo una simile concezione, abbastanza estesa da includere, insieme al bene interessato, tutte le pertinenze che ne rappresentano il contesto e ne determinano il senso.

I criteri per la dichiarazione di interesse cambiano radicalmente per chi antepone il valore dell'immagine della realtà materica delle preesistenze e pensa quindi di poterle rifare quando vuole, servendosi delle risorse tecnologiche odierne. In questo caso, essendo il contesto riproducibile, sono soltanto le emergenze monumentali che meritano un'azione di tutela, peraltro diretta a salvarne le parti "originali", sacrificando le stratificazioni che ne hanno segnato la storia. Il vincolo sarà perciò riservato ad una selezionata campionatura, atta a costituire un ideale museo dei capolavori, apprezzati soprattutto per le parti più decorate, sulle quali dovrà particolarmente diffondersi la documentazione. I perimetri vincolati tendono in tale ottica a restringersi e a concentrarsi sugli aspetti più prestigiosi.

Il territorio, protagonista di una necessaria convivenza armonica delle azioni formative di epoche diverse, nell'opzione precedentemente descritta, diviene in questa concezione il supporto neutro di una valorizzazione turistica del pezzo forte e perciò dovrà essere disponibile ad un'azione anche violenta pur di portare a contatto del monumento il maggior numero possibile di visitatori. In ogni caso, le violenze al contesto potranno sempre essere attenuate da rifacimenti in stile, adatti a costruire nell'intorno scenografie rassicuranti.

Ne deriva, per i finanziamenti, una concentrazione della spesa su poche opere di grande richiamo e su importanti musei. Al vantaggio di disporre, per questi pochi fortunati testimoni del tempo, di somme considerevoli corrisponde però il limite di azioni condotte con i tempi e i metodi dei grandi appalti, necessariamente poco flessibili e spesso gravati da notevoli oneri e appesantiti da complicazioni burocratiche. E' difficile garantire la qualità e l'attenzione necessarie in operazioni accompagnate da attese politiche pressanti proprio per il loro carattere eccezionale. Sarà poi problematica la gestione locale di impianti culturali sradicati da un adeguato contatto col territorio. Se quindi la selezione dei beni su cui intervenire può apparire realistica sul piano dell'efficienza realizzativa, appare evidente che tale eventuale risultato non dà, nella maggioranza dei casi, molte garanzie contro le ricostruzioni ipotetiche, le distruzioni irreversibili di parti giudicate secondarie e la realizzazione di ingestibili cattedrali nel deserto.

Ma, al di là di questi pur notevoli pericoli, è la funzione civile del patrimonio culturale che in questa logica appare sacrificata. In mancanza di un'azione generalizzata informata al rispetto dell'esistente e al genuino confronto tra espressioni del passato e creatività attuale, non si forma nelle persone una sensibilità pronta a conservare le testimonianze del tempo e a misurarsi onestamente con loro. Le costruzioni storiche vengono allora considerate non come segni di qualificazione del paesaggio sui quali misurare la correttezza di nuovi interventi per mantenere e far crescere un'identità civile, ma come emblemi di inadeguatezza da abbandonare o, nei casi più illustri, di sfarzo da imitare.

La loro conservazione sarà riservata a quei rari prodigi e improntata all'esaltazione dei caratteri più appariscenti, destinati ad abbagliare frettolosi turisti, desiderosi soltanto di ritrovare "dal vivo" i cliché di bellezza a cui li prepara una pubblicità necessariamente appiattita e semplificatrice.

Il turismo non serve in tal caso a sviluppare l'orgoglio per la propria cultura, ma al contrario contribuisce a deformare i caratteri dei luoghi per adeguarli alle attese internazionali. Se si vuole che invece i finanziamenti dedicati alla cultura contribuiscano a migliorare e approfondire un radicamento culturale realmente diffuso tra i cittadini e quindi capace di rispettare la qualità del passato e prolungarla nell'avvenire, occorre puntare ad interventi che vedano una partecipazione coordinata dei diversi settori operanti sul territorio.

Nei tempi brevi non si può sperare che un Paese indirizzato da tempi a obiettivi industriali generalmente confliggenti col rispetto del paesaggio storico cambi radicalmente direzione, ma si possono costruire campioni limitati di territorio ove lo sviluppo avvenga in armonia con le istanze conservative.

Non si tratta di individuare "isole felici" da sottrarre al progresso perché non si corrompano, bensì di avviare una serie di azioni coordinate per dimostrare, in diverse situazioni territoriali, che è possibile far andare d'accordo la vita di oggi con l'eredità passata. In questo modo il denaro investito non servirà a produrre riserve protette in zone più vaste che così possono crearsi un alibi per la libera devastazione delle loro peculiarità, ma al contrario sperimentare, su aree circoscritte dotate di caratteri particolari, una convivenza pacifica tra restauro, riabilitazione, usi dei fabbricati e dei suoli, infrastrutture e reti tecnologiche. Il campione così investito dall'azione pianificatoria, se vorrà avere una vita duratura, dovrà legarsi ad altre esperienze simili e diverrà perciò un seme destinato a diffondere un nuovo modo di intendere l'arricchimento del territorio.

Come istituzione statale dotata di una certa esperienza nella tutela dell'architettura e dell'ambiente, siamo pronti a muoverci in sintonia con la Regione, le Province e i Comuni per affrontare insieme quella che appare come la sola possibilità per dare coerenza ad uno sviluppo ancora estremamente caotico. Altrimenti non ci resta, come tecnici interessati al paesaggio, che chinare il capo di fronte al potere del denaro e delle immagini prestigiose, lasciare che cresca il deserto intorno a pochi paradisi sempre più artificiali e rinunciare a lasciare a chi verrà quello che abbiamo ereditato.

Guglielmo Monti

Ministero per i Beni e le Attività Culturali

Soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio
per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso